di Stefano Folli. Nel momento più difficile della sua esperienza di governo, non è strano che Matteo Renzi si sia ritrovato al Quirinale. Da Napolitano ha sempre ricevuto buoni consigli, anche affettuosi. Verso il dinamico giovane fiorentino («uno di quelli che vogliono cambiare le cose in Europa» ha detto Tony Blair a Sky), il capo dello Stato ha dimostrato fin dall’inizio stima e simpatia.
Oggi, quando mancano poche settimane alle dimissioni del presidente per ragioni di età e di salute, i suoi consigli sono ancora più preziosi e senza dubbio bene accetti da un premier che vede restringersi il sentiero davanti a sé. Il sentiero istituzionale, in particolare, perché la riforma a cui Renzi tiene continua a essere — come tutti sanno — la legge elettorale. Accanto a questa c’è la trasformazione del Senato in camera delle autonomie: una sorta di fiore all’occhiello del «renzismo», un’iniziativa costituzionale complessa che Napolitano ha sempre appoggiato con convinzione.
Il problema di Renzi è che l’autunno ha oscurato il quadro e reso incerto il cammino della modernizzazione. Inoltre la prospettiva di una sede vacante al Quirinale ai primi di gennaio rende ancora più confuso lo scenario. Ci vorrebbero accordi forti tra le forze politiche, a cominciare dal partito berlusconiano. Invece le intese sono deboli, esposte al vento delle divisioni interne che coinvolgono, in forme diverse ma insidiose, sia Forza Italia sia il Pd. Eppure il presidente del Consiglio ha bisogno di risultati certi entro una data definita: sia per non soccombere alla «vulgata» che già circola nei palazzi romani a proposito di un declino politico ormai in essere, sia per disporre di un’arma di pressione sui parlamentari quando si comincerà a votare per il successore di Napolitano.
La nuova legge elettorale maggioritaria approvata almeno in un ramo del Parlamento sarebbe un buon argomento per tenere a freno dissidenti e contestatori, soprattutto quelli che interessano da vicino il premier perché convivono all’interno del Pd. Una riforma maggioritaria taglierebbe le unghie a chi sogna una scissione (non Bersani, come si è visto); mentre una legge proporzionale, tipo quella introdotta dalla sentenza della Consulta, incoraggerebbe senza dubbio la nascita di nuove formazioni. In altre parole, tutto s’intreccia. Il partner Berlusconi non dice «no» alla riforma di Renzi, ma è sempre più impacciato da un partito che non rispetta più la sua autorità, un tempo assolutamente scontata. Per cui al vertice di Forza Italia si tenta di rinviare la legge elettorale a dopo l’elezione del presidente della Repubblica, inseguendo un legame che il premier rifiuta. D’altra parte, il colloquio di ieri è servito, certo, a rassicurare Renzi circa il consueto sostegno da parte di Napolitano. Ma anche a stabilire che non si possono immaginare strappi e colpi di testa in materia istituzionale. Occorre, anzi, una certa simmetria fra il percorso della riforma elettorale e quella, di natura costituzionale, che cambierà il volto del Senato.
Qui Napolitano è stato chiaro e il presidente del Consiglio non ha motivo per non essere d’accordo. In fondo tutti hanno ascoltato cosa ha detto di recente a Palazzo Madama l’ex presidente della Corte, Silvestri: in un sistema che continua a essere bicamerale, fino alla compiuta riforma del Senato, non ci si può affidare a un modello elettorale dichiaratamente previsto per la sola Camera dei deputati. Ne derivano una serie di conseguenze che consigliano di tener conto dei vari passaggi costituzionali in corso, coinvolgendo un’ampia platea di forze politiche, senza rincorse solitarie. Può darsi che siano necessari tempi un po’ più lunghi di quelli desiderati dal premier, ma è interesse comune evitare rischi di incostituzionalità. Se poi, come è inevitabile, questo percorso s’incrocerà con l’elezione del nuovo capo dello Stato, pazienza. Un sistema maturo — è il pensiero attribuito a Napolitano — si giudica anche da come sa gestire gli snodi istituzionali rilevanti.
Repubblica – 27 novembre 2014