Sul fronte del pubblico impiego crescono le pressioni per assunzioni e fondi aggiuntivi. La manovra apre le porte a 12mila assunzioni ma dai ministeri arrivano richieste di rafforzamento degli organici che costerebbero 200 milioni. E gli enti locali premono per essere aiutati a finanziare i nuovi contratti dei dipendenti. Il tutto mentre ampliamento del turn over e maxi-staffetta generazionale mettono in calendario per il 2018 almeno 80mila nuovi ingressi nella Pa (scuola esclusa). E per il rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici arriva un’una tantum alimentata dagli arretrati: 581 euro. L’«una tantum» arriverà nella prima busta paga dopo la firma dei contratti. Si stringono i tempi per l’accordo entro Natale
La sabbia che scorre nella clessidra delle trattative sui rinnovi contrattuali del pubblico impiego è osservata con attenzione da politica e sindacati, che hanno un obiettivo comune: chiudere gli accordi entro Natale, almeno per i comparti più grandi, per far arrivare i soldi in busta paga in tempo per il doppio appuntamento elettorale di primavera. Perché oltre al Parlamento, e alle Regioni Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Lazio e Molise, si dovranno rinnovare le rappresentanze sindacali negli uffici pubblici. Ma le questioni del pubblico impiego continuano a dominare anche il confronto sulla manovra: il testo approvato dal governo, oltre a completare il finanziamento dei nuovi contratti, apre le porte a 12mila assunzioni sparse in varie amministrazioni, ma negli emendamenti ministeriali sono piovute nuove richieste di rafforzamento degli organici che costerebbero intorno ai 200 milioni.
Sindaci e presidenti di regione, poi, premono per essere aiutati a finanziare gli 1,6 miliardi abbondanti di costi per i nuovi contratti dei “loro” dipendenti, in una partita che nella sanità si intreccia con la battaglia intorno al super-ticket. Il tutto mentre l’ampliamento del turn over negli enti locali, deciso a primavera con la manovrina, e l’avvio della maxi-staffetta generazionale prodotta dai pensionamenti mettono in calendario per l’anno prossimo almeno 80mila nuovi ingressi nella Pa al netto della scuola.
Il groviglio è intricato, e la speranza che si dipani in fretta, oltre a partiti e sindacati, anima in modo ancora più diretto l’interesse dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici. Per loro il rinnovo dei contratti bloccati dal 2010 significa anche l’arrivo di un’una tantum alimentata dagli arretrati. Non è un dettaglio, perché si tratta di circa 581 euro medi a testa, che saranno accreditati nel primo stipendio utile dopo la firma dei contratti.
L’arretrato non compensa i lunghi anni di stop alla contrattazione, perché la sentenza della Corte costituzionale che a luglio 2015 ha imposto di riattivare i rinnovi ha considerato legittimo il blocco imposto fin lì ai dipendenti pubblici. In freezer, a partire dalla manovra 2016, hanno però cominciato ad accumularsi i fondi per le nuove intese, che hanno dovuto aspettare la riforma dei comparti prima (i contratti nazionali saranno 4 invece dei vecchi 11) e quella del pubblico impiego poi. La prima manovra varata dal governo Renzi dopo la sentenza costituzionale ha voluto dare poco più che un segnale, mettendo sul piatto 300 milioni di euro che nella pubblica amministrazione centrale (ministeri, enti pubblici nazionali, agenzie fiscali e così via) si traducono in circa 9 euro lordi al mese.
In sanità, regioni, enti locali e università le singole amministrazioni hanno dovuto accantonare una cifra in grado di dare gli stessi effetti. Per calcolare l’una tantum, i 9 euro vanno moltiplicati per le 13 mensilità del 2016 e per le altrettante di quest’anno, quando però si sono aggiunti i 900 milioni di euro messi a disposizione dalla scorsa legge di bilancio. Per ogni mensilità di quest’anno, quindi gli 8,9 euro targati 2016 si accompagnano ai 26,8 finanziati con i nuovi fondi, per un totale che si ferma poco sotto i 36 euro. Il riassunto porta quindi a un arretrato medio da 581 euro e qualche centesimo.
Questa una tantum è «media» come sono «medi» gli 85 euro lordi promessi a regime dall’intesa governo-sindacati del 30 novembre 2016, e coperti del tutto per lo Stato dalla legge di bilancio in discussione al Senato. La strategia del governo punta a differenziare i ritocchi contrattuali in base alla busta paga, secondo uno schema della «piramide rovesciata» che dovrebbe tutelare di più i redditi più bassi. Ma saranno i tempi stretti delle trattative a definire il quadro.
Le direttive all’Aran, l’agenzia che rappresenta la Pa al tavolo delle trattative, tornano anche a chiedere di dividere gli aumenti fra tabellare e fondi accessori, ma per gli arretrati l’impresa pare complicata. Per riuscire nell’impresa di portare far scattare gli aumenti prima delle urne, il tempo per il confronto è limitato alle prossime 3-4 settimane, perché prima della firma finale i contratti dovranno passare l’esame del ministero dell’Economia e della Corte dei conti. Il traguardo potrebbe essere alla portata della Pa centrale, mentre per gli altri settori servirebbe un colpo di reni difficile da prevedere.
I costi lordi dell’operazione sui contratti superano i cinque miliardi all’anno, e preoccupano soprattutto gli amministratori locali per due ragioni: nei loro bilanci si sente solo marginalmente l’effetto-ritorno prodotto sui conti della Pa centrale dalle entrate fiscali e contributive aggiuntive prodotte dagli aumenti (in termini di indebitamento netto, gli 1,7 miliardi in più messi dallo Stato per il 2018 valgono invece “solo” 850 milioni), e il costo dei contratti si aggiunge a quello delle assunzioni rese possibile dal turn over ampliato solo pochi mesi fa. Sempre negli enti territoriali si concentrerà la maggioranza delle 50mila stabilizzazioni messe in programma dal piano straordinario triennale della riforma del pubblico impiego, la cui circolare attuativa è stata firmata giovedì.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 26 novembre 2017