Molto dipenderà dalle formule, come accade sempre nelle trattative sindacali soprattutto quando in gioco c’è un accordo politico e non un’intesa destinata a incidere subito sulle buste paga.
Fatto sta che questa è la mattina decisiva per far ripartire davvero i rinnovi contrattuali del pubblico impiego fermi da sette anni. Alle 11 i segretari di Cgil, Cisl e Uil arriveranno alla Funzione pubblica e incontreranno la ministra per la Pa e la semplificazione Marianna Madia per quella che nelle intenzioni del governo dovrebbe rappresentare l’apertura della via d’uscita da sette anni di congelamento contrattuale. Da Palazzo Vidoni le bocche sono ufficialmente cucite, come si conviene alla vigilia dell’incontro chiave, ma sul tema interviene il ministro del Lavoro Giuliano Poletti dicendosi «convinto che le condizioni per chiudere possano esserci».
Molto, si diceva, si giocherà sulle formule definitive del documento, perché sui contenuti il quadro è ormai piuttosto delineato. La cifra chiave resta quella degli «85 euro a regime», cioè al termine del triennio 2016-2018, che non potranno rappresentare l’aumento «minimo» come da richiesta sindacale (variamente modulata fra le sigle, in realtà) ma potrebbero non essere direttamente etichettati come «medi», come indicato nei giorni scorsi dal governo. È chiaro, però, che gli 85 euro rappresenteranno la soglia di riferimento per modulare i ritocchi retributivi, che secondo lo schema della «piramide rovesciata» più volte sostenuto dal governo dovrebbero concentrare gli effetti maggiori sui redditi più bassi, che come spiega il documento di base «hanno sofferto maggiormente la crisi economica e il blocco della contrattazione».
Il punto, oggi, è politico, e poggia sull’impegno del governo di trovare per il 2018 risorse aggiuntive rispetto a quelle messe in campo dalla legge di bilancio dell’anno prossimo, che al netto dei fondi da destinare alla replica degli 80 euro per le forze dell’ordine e alle stabilizzazioni prospettano un ritocco medio intorno ai 40 euro. Disegnare la geografia possibile per gli aumenti toccherà poi all’atto di indirizzo, cioè al documento con cui la Funzione pubblica indicherà all’Aran (l’agenzia che rappresenta la Pa come datore di lavoro) le linee guida per il confronto nel merito con i sindacati: lì andranno definiti anche gli strumenti per sterilizzare l’incrocio fra i ritocchi contrattuali e gli 80 euro, perché senza questa precauzione una quota importante di dipendenti pubblici potrebbe uscire dalle fasce di reddito che danno diritto al bonus.
L’altro pilastro della proposta governativa punta alla semplificazione delle regole per il salario accessorio, con l’obiettivo di ridare peso alla contrattazione e di costruire indicatori utilizzabili per l’assegnazione delle quote premiali. Anche qui, difficilmente l’intesa scenderà nei dettagli, anche per non ostacolare la via verso l’accordo, ma l’indirizzo è chiaro. I parametri uguali per tutti fissati per legge nel 2009, con l’obbligo di distinguere i dipendenti in tre fasce e di azzerare la voce «produttività» nel 25% delle buste paga, non hanno funzionato, e l’alternativa passa da una strategia in due mosse: indicare nella legge il principio che vieta i classici premi uguali per tutti, e magari impone di bloccarli del tutto per una fetta di personale, ma lasciare alla contrattazione le modalità con cui tradurlo in pratica. La sfida, finora mancata nei tentativi precedenti, è collegare il tutto a obiettivi misurabili, soprattutto in termini «percepibili» dai cittadini.
Sul modello appena realizzato con il contratto dei metalmeccanici (firmato anche dalla Fiom-Cgil) la proposta prevede poi una spinta anche per il welfare aziendale, la cui estensione alla Pa è chiarita dalla legge di bilancio, con un’apertura su fondi pensione e prestazioni sanitarie. Anche qui servono risorse, ma l’incrocio fra questi valori e gli «85 euro» è ancora tutto da costruire.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 30 novembre 2016