Se davvero i decreti attuativi della legge Madia onoreranno l’impegno assunto con i sindacati per «promuovere il riequilibrio, a favore della contrattazione», tra le fonti di disciplina del lavoro pubblico, allora è certo che i temi della valutazione e produttività dei dipendenti torneranno ad occupare le agende dei tavoli Aran.
Per le nuove regole il contratto nazionale potrà derogare alle discipline di legge, salvo che queste non decidano di “autoproteggersi” dall’intervento dell’autonomia collettiva; inoltre la contrattazione del pubblico impiego (nazionale e integrativa) potrà svolgersi su tutte le materie del rapporto di lavoro, comprese quelle che hanno impatto sull’ organizzazione e sulle politiche finanziarie degli enti, come appunto valutazione e salario accessorio.
I primi approcci della contrattazione degli anni 2000 erano basati su una logica premiale ad ampio spettro, che ha presto condotto ad aumenti indifferenziati e quindi ad appiattimento retributivo, di per sé frustrante per skills e buone pratiche. La riforma Brunetta ha fatto confluire l’intera disciplina della produttività e incentivazione verso gli istituti della misurazione e valutazione della performance, sottraendo la materia alle regole dei contratti collettivi, anche alla luce di una durissima giurisprudenza contabile sulla distribuzione del salario incentivante a livello integrativo.
L’impianto dei sistemi di valutazione voluti dal legislatore del 2009 ha incontrato immediatamente ostacoli e crisi di rigetto applicative, interne ed esterne al modello: blocco delle risorse e della contrattazione collettiva; diffusa resistenza sindacale circa la distribuzione dei dipendenti su fasce di merito predeterminate, con necessaria revisione dei contratti integrativi per la distribuzione dei trattamenti da collegare alla performance; obbligo di destinare alla produttività individuale gran parte delle risorse dei fondi accessori con sacrificio di voci stipendiali integrative diverse, ma indispensabili per la gestione del personale (straordinario, progressioni economiche, indennità di vario genere). Oggi, l’arretramento della disciplina legale, con l’annunciata scomparsa delle fasce di merito e quindi di percentuali di distribuzione dei salari che impongano la differenziazione delle valutazioni, non elimina, nella responsabilità della contrattazione collettiva, la necessità di saldare il legame fra retribuzione, competenze e produttività del personale. Ferma la possibilità per la legge di introdurre (pochi) ma inderogabili principi applicativi, gli atti di indirizzo all’Aran da parte dei Comitati di settore assumeranno valenza decisiva per conservare e potenziare il valore della produttività nel lavoro pubblico.
In un sistema che prevalentemente non produce le risorse da destinare all’incentivazione e dove è oggettiva la difficoltà di introdurre sistemi organizzativi orientati al risultato, questioni centrali restano la definizione degli obiettivi da parte dei vertici amministrativi, la selettività delle valutazioni, una forte flessibilità dei sistemi di misurazione della performance in relazione alle diversità organizzative, la responsabilizzazione e formazione della dirigenza verso i processi valutativi. Si dovrà poi trovare maggiore equilibrio fra dinamiche squisitamente premiali e soluzioni incentivanti basate sulle politiche assunzionali, con il riconoscimento contrattuale delle competenze e degli sviluppi professionali e di carriera legati al merito.
E forse occorrerà anche rimodulare, se non ripensare per intero, il ruolo assunto in materia dal Dipartimento della funzione pubblica, così come di recente ordinato per la via regolamentare, riguardo alle funzioni di indirizzo e monitoraggio che già furono della Civit, poi trasformata in Anac.
- Mainardi, Ordinario di Diritto del Lavoro Università di Bologna
Il Sole 24 Ore – 13 febbraio 2017