Si gioca intorno agli otto miliardi di euro che ogni anno alimentano le parti “variabili” dello stipendio la partita decisiva sul futuro economico dei dipendenti pubblici, nei due tempi rappresentati dal decreto in arrivo che riscrive il testo unico del pubblico impiego e dalle trattative per il rinnovo contrattuale, che andranno avviate subito dopo. Il tema è al centro del confronto di oggi con i sindacati sul decreto attuativo della riforma Madia atteso al primo via libera in consiglio dei ministri, e non poteva che essere così. Per far ripartire la macchina contrattuale bloccata da sette anni – da riavviare come imposto ormai 19 mesi fa dalla sentenza 178/2015 della Corte costituzionale – sindacati e governo hanno convenuto sulla necessità di smontare le griglie rigide scritte nel 2009 (ma mai attuate) dalla riforma Brunetta, che imponeva di concentrare sulla produttività la «quota prevalente» del salario accessorio e di azzerare i premi per un quarto del personale.
Il tema è delicato perché le indennità variabili, al cui interno la produttività è protagonista, valgono in media 2.300 euro a dipendente, superano i 3mila euro pro capite nelle agenzie fiscali fino al picco da 11mila euro negli enti pubblici non economici (Inps, Inail, Aci eccetera): cifre in ogni caso parecchio superiori a quelle che un rinnovo contrattuale può offrire sulla parte fissa.
La parola d’ordine, allora, è stata la restituzione della materia ai contratti nazionali, ridando alle “relazioni industriali” della Pubblica amministrazione i compiti che la riforma del 2009 aveva tolto alle trattative fissandoli nella legge. Condivisa l’idea, le distanze fra governo e sindacati si sono però subito allargate sulle scelte concrete per muovere di nuovo questo pendolo fra legge e contratti. Gli obiettivi, infatti, non coincidono. Il governo preme per tentare in ogni caso la via della “selettività” nel riconoscimento dei premi, anche per evitare di far passare l’idea di un cedimento alla distribuzione indifferenziata delle risorse; i sindacati, ovviamente, vogliono evitare il più possibile effetti collaterali in busta paga, tanto più dopo che i lunghi anni di blocco contrattuale hanno alleggerito sia il potere d’acquisto delle buste paga (in media del 6,2% annuo rispetto al 2011, come riportato sul Sole 24 Ore del 30 gennaio) sia il ruolo politico dei sindacati.
Per questa ragione la battaglia si è accesa sul tentativo del governo di fissare comunque nella legge un parametro fisso, che avrebbe chiesto di concentrare il 50% dei premi sul 25% dei dipendenti, lasciando agli altri il resto. Un criterio decisamente meno rigido di quello del 2009, che chiedeva di negare i premi a un dipendente su quattro, ma sufficiente a scatenare l’opposizione sindacale su un punto che nel testo finale del decreto non trova spazio. Sul tema, le ultime bozze chiedono ai contratti nazionali di garantire la «significativa differenziazione» nelle valutazioni a cui deve corrispondere «un’effettiva diversificazione» dei premi.
La mossa può essere letta come “vittoria” politica per i sindacati, ma non è decisiva. Prima di tutto c’è da decidere quanto peso dare alla performance collettiva, dell’ufficio, e a quella individuale. Insieme ai correttivi a Testo unico e riforma Brunetta, che dopo il primo via libera in consiglio dei ministri dovranno ottenere i pareri di Parlamento e Consiglio di Stato e l’intesa con gli enti territoriali prima del varo finale entro aprile, per fare i contratti servono poi gli atti di indirizzo, che la Funzione pubblica dovrà fornire all’Aran (l’agenzia che rappresenta lo Stato come “datore di lavoro”) per i quattro nuovi comparti in cui è divisa la Pa. E lì, c’è da scommetterci, il tema della selettività nella distribuzione dei premi tornerà ad accendere la discussione insieme alla “piramide degli aumenti” che secondo le pluriannunciate intenzioni governative dovrebbero concentrarsi sulle fasce di reddito più basse.
Per passare dalle battaglie ideologiche agli incentivi pratici, però, occorre mettere in funzione una serie di indicatori per misurare davvero la produttività di uffici e dipendenti, senza i quali l’idea stessa di “premiare il merito” si svuota.
Sul punto, l’idea cardine del nuovo decreto è quella di fissare due livelli di obiettivi da misurare: quelli generali, indicati dal governo in una sorta di identikit degli uffici pubblici virtuosi (per esempio quelli che pagano in tempo i fornitori, hanno bassi tassi di assenteismo, sfruttano al meglio i sistemi di e-government e così via) e quelli “specifici”, tagliati su misura delle singole amministrazioni e fissati dai vertici amministrativi. Dipenderà da questo, più che dai dibattiti politici sul “merito”, la possibilità di cominciare davvero a misurare la produttività della pubblica amministrazione.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 13 febbraio 2017