Il licenziamento dei dipendenti pubblici che hanno raggiunto i limiti di anzianità deve essere sempre accompagnato da una motivazione, anche se è intervenuto nei periodi in cui le norme non lo prevedevano espressamente. Per rendere inattaccabile questa scelta, non è indispensabile un «atto generale di organizzazione interna» che inserisca la previsione dell’addio all’interno del regolamento dell’ente, ma è indispensabile una “giustificazione” esplici ta perché su questa si deve basare il giudizio sulla legittimità della scelta. Con questa decisione la Corte di cassazione, nella sentenza 11595/2016 depositata ieri, ha dato ragione a due lavoratori di un Comune lombardo, che nel 2008 si erano visti consegnare il benservito perché avevano raggiunto i 40 anni di anzianità contributiva. A prevedere la possibilità di accompagnare all’uscita i dipendenti con queste caratteristiche era stata introdotta dalla manovra estiva del 2008 (articolo 72, comma 11, del Dl 112/2008) con lo scopo di svecchiare le amministrazioni pubbliche.
L’obiettivo è stato poi mancato dal fatto che la crisi di finanza pubblica ha prodotto strette progressive sul turn over, ma anche la regola sull’uscita dei dipendenti più in là con gli anni è stata coinvolta dall’interminabile cantiere normativo, che ha nel tempo modificato il parametro (40 anni di anzianità di servizio anziché di anzianità contributiva) e introdotto l’obbligo di adozione dell’atto di organizzazione generale.
Anche per il periodo in cui è stata in vigore la norma originaria, aggiunge però la Cassazione, la risoluzione del rapporto di lavoro andava accompagnata da una motivazione esplicita, e in questo modo la suprema Corte fissa un principio generale valido anche per orientare le scelte operative attuali.
La motivazione organizzativa, in pratica, deve sostenere anche le risoluzioni “automatiche” previste dalle norme per due ragioni. A chiederlo, prima di tutto, sono le regole europee, che tra le discriminazioni vietate nella gestione dei rapporti di lavoro inseriscono, oltre a quelle dettate da religione, convinzioni personali, handicap e tendenze sessuali, anche quelle legate all’età del dipendente (direttiva 2000/78/Ce). In quest’ultimo caso, spiega la direttiva, le regole su misura possono essere legittime, e quindi non essere considerate discriminatorie, solo se «oggettivamente e ragionevolmente giustificate da una finalità legittima», come può essere per esempio l’obiettivo esplicito del legislatore di riorganizzare la Pubblica amministrazione.
Per capire se le scelte dei singoli uffici rientrano in quest’ambito, però, è indispensabile la motivazione, senza la quale non è possibile avere elementi per il giudizio di legittimità.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 7 giugno 2016