Gianni Trovati, il Sole 24 Ore. Quello che si è appena chiuso è stato un anno ricchissimo di novità per le buste paga dei dipendenti pubblici: quattro rinnovi contrattuali che hanno interessato il personale non dirigente di amministrazioni centrali, enti territoriali, sanità e scuola, gli adeguamenti delle indennità per i ministeriali, e una pioggia di arretrati che hanno gonfiato i cedolini. Tanta grazia non è però bastata a modificare gli andamenti di lungo periodo delle retribuzioni: che nel pubblico impiego fra 2013 e 2022 sono cresciute del 6,1%, cioè meno della metà di un’inflazione del periodo indicata nel 13,8%. L’aggancio al carovita ha funzionato molto meglio nel settore privato, soprattutto nell’industria dove i contratti hanno tenuto il passo (+13,1%), un po’ meno nei servizi dove comunque gli aumenti (+9,8%) sono stati più vivaci di quelli pubblici.
I numeri sono dettagliati dal Rapporto sulle retribuzioni che sarà pubblicato oggi dall’Aran, l’agenzia negoziale del pubblico impiego. Le cifre, che per ragioni tecniche fotografano la situazione a fine settembre, hanno bisogno di un paio di precisazioni, che però non cambiano il quadro. Primo: l’inflazione del decennio andrà aggiornata al rialzo, verso quota 18,5% perché la stima preliminare Istat parla di un incremento 2022 dell’11,6% e non più del 7,3% indicato nei documenti di finanza pubblica (bisognerà attendere la stima definitiva martedì prossimo). E anche la crescita effettiva delle buste paga pubbliche sarà a consuntivo un po’ più alta, per i contratti arrivati al traguardo solo a fine anno (ultimo quello della scuola).
Questo secondo aspetto in realtà evidenzia il problema di fondo. L’impatto dell’entrata in vigore dei rinnovi contrattuali porterà una gobba di incrementi di cassa che l’Aran stima nei dintorni di uno spettacolare +9%. Ma si tratta in larga parte di un effetto ottico alimentato dagli arretrati, che sono ovviamente un’una tantum e dipendono dal fatto che le intese arrivate ora al debutto riguardano un triennio già scaduto, il 2019/2021. «I numeri mostrano l’effetto del ritardo ormai strutturale con cui si rinnovano i contratti del pubblico impiego – ragiona Antonio Naddeo, presidente dell’Aran -, perché gli stanziamenti si accumulano progressivamente nelle leggi di bilancio e si completano quando il triennio è ormai scaduto. Il problema si ripete ora per il 2022-24, perché in assenza di spazi fiscali l’ultima manovra ha stanziato solo il miliardo per l’una tantum ma il fondo per i rinnovi contrattuali deve essere ancora avviato».
Proprio qui arriva il punto chiave di un problema che non nasce oggi, ma che inevitabilmente si aggrava con l’impennata dell’inflazione. I prezzi in volo hanno infatti il doppio effetto di ridurre i margini del bilancio pubblico, assorbiti dagli aiuti emergenziali a imprese e famiglie, e di moltiplicare i costi dei rinnovi contrattuali, che con i tassi attuali arriverebbero a costare per il 2022-24 oltre 26 miliardi (anche considerando le previsioni ormai archeologiche del Def su quest’anno e sul prossimo) contro i poco più di 7 miliardi della tornata 2019-21. Il rompicapo si aggrava con l’una tantum, che aumenta dell’1,5% gli stipendi per il solo 2023 (costo 1,8 miliardi fra Stato ed enti territoriali). Senza nuovi interventi, gli stipendi pubblici scenderebbero anche in valore assoluto dal prossimo gennaio, ipotesi difficile da gestire in tempi di inflazione. Ma i nuovi interventi richiedono aumenti di spesa pubblica mentre il programma di finanza pubblica promette un taglio del deficit di 8 decimali (16 miliardi) e il ritorno dell’avanzo primario. Un bel problema, per una Pa che dovrebbe tornare ad attrarre competenze specialistiche per attuare il Pnrr.