Il divieto di monetizzare le ferie è «una normativa settoriale», nata dall’obiettivo di «arginare un possibile uso distorto della monetizzazione», e quindi non cozza contro il diritto al riposo e l’obbligo di pagare il lavoro aggiuntivo rispetto a quello stabilito dal contratto. Su questi presupposti, nella sentenza 95/2016 depositata venerdì la Corte costituzionale (presidente Lattanzi, relatore Sciarra) ha salvato il blocco alla traduzione in euro delle ferie dei dipendenti pubblici, imposto dal Governo Monti nella spending review del 2012 (articolo 5, comma 8 del Dl 95/2012) all’interno del pacchetto di misure scritte per frenare la spesa pubblica. A portare la questione sui tavoli dei giudici delle leggi è stato il Tribunale di Roma, che oltre a giudicare «manifestamente irragionevole» (e quindi contrario all’articolo 3 della Costituzione) lo stop assoluto alla monetizzazione, ha chiamato in causa anche l’articolo 36 della Carta fondamentale, quello che fissa il diritto «al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite».
Per la Consulta, però, questi diritti costituzionali non sono messi a rischio dalla spending review di Monti che anzi riaffermerebbe «la preminenza del godimento effettivo delle ferie».
Il meccanismo applicativo, disciplinato dalle istruzioni a suo tempo diffuse da Inps, Ragioneria generale dello Stato e Funzione pubblica, hanno infatti permesso di trasformare le ferie in euro nel caso più a rischio, cioè quello in cui il rapporto di lavoro con l’amministrazione di riferimento si chiude per ragioni «che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro». In tutti gli altri casi, dalle dimissioni al pensionamento, il diritto alle ferie non è messo a rischio, perché se il rapporto di lavoro si chiude per ragioni prevedibili o per la volontà del lavoratore c’è lo spazio per prevedere l’uscita, e quindi programmare il riposo in anticipo.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 7 maggio 2017