Dopo il tentativo, vano, di impedire la distribuzione indiscriminata dei premi di produttività ai dipendenti pubblici imbrigliandone le regole della legge, con la nuova riforma in arrivo per attuare la delega Madia la parola torna ai contratti. Il passaggio, nelle intenzioni del governo, non dovrebbe tradursi in un “liberi tutti”, ma l’obbligo di differenziare i premi a seconda del merito, individuale e dell’ufficio, sarebbe tradotto in principi più flessibili per andare incontro alle differenze che si incontrano fra ente ed ente, evitando che troppa rigidità si traduca in un nulla di fatto. Uno dei pilastri del nuovo decreto legislativo atteso in consiglio dei ministri nelle prossime settimane, è proprio la riforma dei premi di produttività, considerata sia dal governo sia dai sindacati un presupposto indispensabile per far partire i nuovi contratti. Oggi le regole sono scritte nella legge Brunetta del 2009, che fissa due obblighi
E cioè alla produttività deve andare la «quota prevalente» (cioè oltre il 50%, secondo la lettura più ovvia) dei fondi che finanziano il trattamento accessorio, vale a dire tutta la parte di busta paga che si aggiunge allo stipendio base («tabellare»).
Qui arriva il primo problema, perché in molti comparti, dalla sanità agli enti locali, questo significherebbe alleggerire i capitoli dei fondi decentrati che finanziano altre indennità, dai turni alle indennità di «rischio» e di «disagio» che premiano chi lavora in strada come la polizia municipale. Oltre a questo, la riforma Brunetta impone di dividere i dipendenti di ogni amministrazione statale in tre fasce di merito, e in «almeno tre fasce» nel caso di regioni ed enti locali, azzerando del tutto i premi per chi si trova nell’ultima, quella che raccoglie i dipendenti con le pagelle meno brillanti. Tutto questo impianto, che avrebbe dovuto debuttare al «primo rinnovo contrattuale» post-riforma, è stato subito messo in un angolo dal congelamento della contrattazione, ma ora torna di attualità. E, se applicato, finirebbe per trasformare il riavvio delle trattative in una cattiva notizia per molti, perché gli aumenti promessi (e in buona parte ancora da finanziare) non basterrebero a compensare l’azzeramento della produttività e la riduzione delle altre indennità.
Per aggirare l’ostacolo, le bozze del decreto sul pubblico impiego fissano un principio generale, che permette ai contratti nazionali di derogare tutte le norme sul pubblico impiego con l’eccezione di quelle scritte nel Testo unico (Dlgs 165/2001) in via di riforma. E i principi della legge Brunetta, dalla «quota prevalente» alle tre fasce, nel testo unico non ci sono.
Da evitare, però, c’è appunto anche il via libera ufficiale alle famigerate distribuzioni “a pioggia”, abituali in molte amministrazioni dove anche la produttività, come le altre voci accessorie, è stata spesso utilizzata per rafforzare un po’ le buste paga congelate dal 2010. Gli strumenti nelle mani del governo per provare a garantire la differenziazione sono due: il principio potrebbe essere ribadito nel testo finale del nuovo decreto, magari senza andare troppo nel dettaglio per non incappare negli stessi problemi della riforma del 2009, e poi articolato negli atti di indirizzo che la Funzione pubblica deve inviare all’Aran per far partire i lavori sui nuovi contratti.
Anche su questo tema il progetto punta ad avvicinare i meccanismi del lavoro pubblico a quelli del settore privato, dove i premi di risultato, incentivati con un’aliquota fiscale piatta del 10%, sono stati di fatto reintrodotti con la legge di Stabilità 2016: il loro riconoscimento è però legato a incrementi misurabili di alcuni “indicatori”, come, oltre alla produttività, la reddittività, la qualità, l’efficienza e l’innovazione. Se queste somme vengono contrattate in azienda, diventano welfare, complementamente esentasse (altro aspetto che la riforma punta in prospettiva a portare anche nella Pa).
Negli uffici pubblici il merito dovrebbe essere misurato secondo la riforma in base a un doppio sistema di obiettivi: quelli «nazionali», che definiscono le «priorità strategiche» della Pa nel suo complesso, e quelli specifici di ogni ente, da dettagliare nel piano delle performance. Tra le priorità generali tornerà anche la lotta all’assenteismo (sono 9,2 i giorni di assenza medi all’anno secondo la Ragioneria generale, ma il dato nasconde situazioni parecchio differenziate): per contrastare quello strategico, la riforma dovrebbe tagliare i premi in particolare a chi diserta troppo l’ufficio di lunedì o venerdì, quindi a ridosso del fine settimana, anche se distinguere fra le assenze motivate e quelle strategiche non sembra facile.
Pa, estesi i licenziamenti «veloci». Uscita in 30 giorni per chi è colto in flagranza
La procedura «sprint» che porta alla sospensione in 48 ore e all’uscita in 30 giorni di chi viene visto timbrare l’entrata senza poi andare in ufficio si estende a tutti i comportamenti punibili con il licenziamento e colti in flagrante: comportamenti che a loro volta si estendono, e oltre ad assenze ingiustificate, falsi documentali e condotte aggressive comprendono anche le violazioni gravi e reiterate dei codici di comportamento, la ripetuta valutazione negativa e, per i dirigenti, il mancato esercizio con dolo o colpa grave, dell’azione disciplinare. Per i procedimenti disciplinari ordinari, invece, i termini scendono da 120 a 90 giorni.
Sono queste le novità principali portate dalla bozza del nuovo decreto sul pubblico impiego, il provvedimento chiamato ad attuare la riforma Madia sulle regole per gli statali e a preparare il terreno per far ripartire le trattative sui contratti. Per centrare questo obiettivo la riforma riscrive anche il rapporto fra legge e contratti, fissando il principio che questi ultimi potranno derogare le leggi che riguardano il lavoro pubblico, con l’eccezione del Testo unico: per questa via, si possono accantonare le regole scritte dalla legge Brunetta, che impone di dedicare alla produttività la «quota prevalente» dei fondi per i trattamenti accessori e di dividere i dipendenti in tre fasce di merito. Queste regole, che sono state subito congelate insieme ai rinnovi contrattuali, rappresentano uno degli ostacoli più importanti sul riavvio delle trattative, perché imporrebbero di azzerare i «premi» a un quarto del personale della Pa centrale, e prosciugherebbero voci che oggi finanziano altre indennità come i turni, il «disagio» e così via. Le tre fasce e la «quota prevalente», però, sono scritte nella legge Brunetta e non nel Testo unico, per cui potranno essere derogate.
Il nuovo testo, atteso in uno dei prossimi consigli dei ministri prima della ricerca dell’intesa (imposta dalla Consulta) con Regioni ed enti locali e dei pareri parlamentari, dovrebbe intervenire anche sull’articolo 18. Il vecchio Statuto dei lavoratori, come ribadito in più di un’occasione dalla ministra per la Pa e la semplificazione Marianna Madia, rimane in vigore nel pubblico impiego, ma qualche novità si affaccia all’orizzonte. I “vizi formali” non determineranno più la decadenza dell’azione disciplinare (purché non venga leso il diritto di difesa del lavoratore); se ci sono “prove schiaccianti” nel giudizio penale (per esempio, che portano, in sede di ordinanza non definitiva, alla custodia cautelare in carcere) la Pubblica amministrazione non sarà più costretta ad attendere la definizione della controversia per proseguire il giudizio disciplinare nei confronti dell’impiegato infedele (e quindi, potrà subito mandarlo via dall’ufficio); e se il giudice annulla il licenziamento (o qualsiasi altra sanzione disciplinare) per violazione del principio di proporzionalità (hai sì commesso il fatto illecito, ma la sanzione che ti è stata irrogata è eccessiva) l’amministrazione avrà 60 giorni di tempo (dal passaggio in giudicato della pronuncia) per riattivare correttamente il procedimento disciplinare nei confronti dell’interessato (oggi, quando arriva la sentenza, se non converte la sanzione direttamente il giudice, scatta automatico il reintegro in servizio del dipendente).
Sull’applicazione delle tutele in caso di licenziamenti illegittimi, insomma, si sta arrivando a un compromesso: in caso di annullamento dell’atto di recesso datoriale resterebbe in piedi, a vantaggio dei lavoratori, la tutela reale piena accordata dall’articolo 18 dello Statuto, pre riforma Fornero (in pratica, reintegrazione nel posto di lavoro per qualsiasi tipologia di licenziamento).
Si aprirebbe invece, rivisitando il modello delineato dall’articolo 21-octies della legge 241 del 1990, sui vizi formali (o procedurali) sancendone, nei fatti, l’irrilevanza ai fini della legittimità dell’azione disciplinare e della sanzione espulsiva irrogata, se non è stato violato il diritto di difesa del lavoratore e nel rispetto dei termini previsti. «Una novità non di poco conto – evidenzia Sandro Mainardi, ordinario di diritto del Lavoro all’Università di Bologna – in quanto tende ad azzerare la tradizionale equiparazione tra vizio sostanziale e vizio formale ai fini della sanzionabilità dell’atto di recesso illegittimo, naturalmente allorquando sono invece giudizialmente accertati la sussistenza dell’illecito e il rispetto dei diritti di difesa». «Certo, con riguardo alle tutele, la distanza con i lavoratori del settore privato resta ampia a favore di quelli pubblici e quindi difficilmente spiegabile anche sul costituzionale. Si poteva forse fare di più per avvicinare le discipline, ma i termini della delega con riguardo all’articolo 18 Stat. Lav. erano troppo limitati per un intervento di maggiore impatto».
Il Sole 24 Ore – 29 gennaio 2017