Il Consiglio di Stato promuove la mini-riforma dell’articolo 18 per i dipendenti pubblici, quella che fissa il tetto di 24 mensilità in caso di reintegro dopo il licenziamento e che secondo molti analisti (i tecnici di Camera e Senato in primis) corre il rischio di essere fuori delega. I giudici amministrativi non la pensano così e fanno rientrare il tema fra le esigenze di coordinamento indicate dalla legge Madia (articolo 16, comma 2, lettera c), che così chiude «l’annosa querelle» al centro anche di decisioni controverse della Cassazione; ma chiedono di ripensare le tutele per il personale che inciampa in un procedimento disciplinare, reintroducendo un termine perentorio di conclusione dell’iter mentre la linea «sostanziale» scritta nella riforma punta a salvare le sanzioni dalle contestazioni nate da vizi formali o dal mancato rispetto del calendario.
Nelle circa 100 pagine del parere 916/2017, il Consiglio di Stato passa al setaccio tutte le novità scritte dal decreto legislativo sul pubblico impiego, il provvedimento attuativo della riforma Madia che serve fra l’altro a riavviare le trattative sui contratti e nelle prossime settimane sarà messo sotto esame dalle commissioni parlamentari prima dell’approvazione definitiva in consiglio dei ministri. Il risultato è una promozione del testo, anche se il «parere positivo» è accompagnato da una serie di osservazioni che rimettono in discussione capitoli importanti del decreto.
Il primo è rappresentato dalla “riforma a metà” dei concorsi, che secondo i giudici potrebbe essere più incisiva: la delega prevedeva di puntare di più le verifiche sui casi pratici, per superare la piega teorico-nozionistica criticata l’anno scorso anche in un dossier della Banca d’Italia, secondo cui i meccanismi attuali non permettono alla Pa di selezionare davvero i migliori. L’incarico però è rimasto lettera morta, come quello che prevedeva di semplificare le procedure: per tagliare i tempi biblici dei concorsi, suggeriscono i giudici amministrativi, si potrebbe limitare la valutazione dei titoli ai candidati che effettivamente partecipano a tutti gli scritti, evitando così il lungo lavoro di verifica su chi di fatto decide di non concorrere. Non è stato cancellato, poi, il voto minimo di laurea (come prevedeva la delega), e anche la valorizzazione del dottorato di ricerca appare parecchio timida, lasciata com’è alle scelte autonome delle singole amministrazioni.
Da correggere, per il Consiglio di Stato, c’è anche il piano straordinario di assunzione dei precari (50mila secondo le stime della Funzione pubblica), che da un lato non può aprire varchi troppo ampi nel principio costituzionale del concorso ma dall’altro non deve porre vincoli tali da tagliare troppo la platea dei beneficiari.
Da quest’ultimo punto di vista, il problema principale si incontra nei requisiti per aspirare alla stabilizzazione. Secondo il decreto, le porte si possono aprire per chi ha maturato almeno tre anni di anzianità negli ultimi otto all’interno della stessa Pa che effettua l’assunzione. I giudici raccomandano al governo di cancellare quest’ultimo vincolo, prevedendo che l’anzianità possa essere maturata in qualsiasi Pa, per due ragioni: il legame esclusivo con l’ente che assume limita drasticamente i candidati alla stabilizzazione, e soprattutto va in senso contrario alla spinta alla mobilità fra le amministrazioni, principio cardine della stessa delega. L’esclusione dei tecnici della scuola, fuori dal piano straordinario come la sanità, rischia poi di non cancellare i rischi di infrazione Ue, cioè una delle ragioni per la nuova ondata di stabilizzazioni.
Un «apprezzamento convinto» arriva poi dal Consiglio di Stato (parere 917/2017) al decreto sulla valutazione delle performance, vale a dire il decreto «parallelo» che smonta le fasce di merito previste nel 2009 dalla legge Brunetta ma mai applicate. Proprio i «cinque lustri» di tentativi vani sul tema, sottolineano però i giudici, indicano che per partire davvero serve un cambio culturale profondo nella Pa, senza il quale anche le ipotesi più “ambiziose” del passato recente sono rimaste prive di effetti.
Per accompagnare questa evoluzione, suggerisce il parere, servirebbero regole un po ’più stringenti, ad esempio prevedendo «qualche forma di sanzione, o comunque di deterrenza» per gli enti che nemmeno approvano il piano delle performance o la relazione che ne verifica i risultati. Secondo i giudici, con le regole scritte nel nuovo decreto non si supera il rischio di «sistemi di valutazione sostanzialmente fondati su autodichiarazioni delle strutture interessate», e non si cancella la possibilità paradossale di assegnare premi di risultato a dirigenti di strutture in cui gli obiettivi non sono stati nemmeno definiti.
La strategia, insomma, è “promossa”, ma sugli strumenti c’è ancora da lavorare.
Parere sullo schema di decreto legislativo di riforma del pubblico impiego
IL Sole 24 Ore – 23 aprile 2017