«Premiamo i dipendenti che fanno il loro dovere e isoliamo tutti gli altri per rendere produttiva la Pa del nostro paese» propone il ministro D’Alia. Questo piano cozza però con la carenza di risorse che blocca il rinnovo dei contratti di lavoro. Tutti la vorrebbero efficiente e che costi poco, ma anni di mala politica l’hanno resa un pachiderma che oggi si dimena tra la necessità di ridurre i costi e quella di rispondere alle esigenze dei cittadini. La pubblica amministrazione a ogni svolta di governo si trova al centro del dibattito soprattutto per le promesse lanciate in campagna elettorale. Taglieremo i costi dello Stato è uno dei leit motiv preferiti da chi aspira a raccogliere più seggi possibili in Parlamento, tanto più ora in tempi di crisi economica e con un bilancio pubblico sull’orlo del crac.
Eppure, la domanda che bisognerebbe porsi, quando si affronta il rinnovamento della pubblica amministrazione, non dovrebbe essere «quanto costa», ma «quanto si spende rispetto agli altri e, a parità di spesa, qual è il livello dei servizi offerti».
L’amministrazione deve certamente rendicontare le spese sostenute, ma dovrebbe anche mostrare il rapporto tra spese e benefici: lo stesso euro può essere speso bene o male, può trasformarsi in uno sperpero come in un servizio pubblico migliore.
L’Europa nelle sue linee guida chiede agli Stati di passare all’ascolto dei cittadini, alla misurazione delle performance dei servizi e alla comunicazione dei risultati di queste valutazioni. Le direttive europee in materia sono chiare: la trasparenza della pubblica amministrazione deve essere un cardine su cui centrare il rapporto con i cittadini.
Del resto la pubblicità di dati e informazioni serve non solo a garantire il controllo sull’operato dell’amministrazione, ma anche a favorire il miglioramento dei servizi offerti e a dare ai cittadini la possibilità di una scelta consapevole.
In questo senso si è mosso anche il neo ministro della Pubblica amministrazione, Giampiero D’Alia, che nell’insediarsi ha spiegato i suoi obiettivi principali: «La crescita economica dipende anche dal tasso di efficienza della pubblica amministrazione, perché le imprese investono solo se hanno la possibilità di dialogare con uno Stato trasparente ed efficiente».
«Per questo – ha continuato – ci sentiamo caricati da una grandissima responsabilità e l’obiettivo sarà far crescere il livello di produttività nel pubblico impiego, incentivando i dipendenti pubblici che fanno il loro dovere e isolando coloro i quali invece, non lavorando, creano sacche di inefficienza e di corruzione».
La parola d’ordine, ripete il ministro sarà «distinguere tra chi lavora e chi non lavora». Le parole però si scontrano con la dura realtà dei bilanci e incentivare i dipendenti pubblici quando mancano anche i soldi per rendere stabili i contratti a termine o per rinnovare quelli esistenti è davvero difficile.
Con un provvedimento tampone il premier Enrico Letta ha spostato di soli sei mesi, dal 31 luglio al 31 dicembre 2013, il termine dei contratti che riguardano i cosiddetti precari della pubblica amministrazione, circa 250mila lavoratori, mentre il neo ministro ha annunciato che non ci sono i soldi per il rinnovo dei contratti dei lavoratori pubblici.
Il nuovo governo, infatti, si avvia a confermare la procedura di blocco dei contratti a tutto il 2014 avviata dal governo Monti, senza fare neanche qualche apertura sugli anni a venire, per i quali, dal 2015 al 2017, è già prevista la sola vacanza contrattuale.
I sindacati dal canto loro hanno annunciato battaglia. «Chiediamo che il Governo ci convochi subito. Non vorremmo essere indotti a pensare che si stia tentando di far passare il cammino del decreto nelle commissioni competenti sotto silenzio.
Sarebbe una grave sottovalutazione dello stato di difficoltà economica in cui versano i lavoratori delle amministrazioni pubbliche», hanno affermato in una nota congiunta Rossana Dettori, Giovanni Faverin, Giovanni Torluccio e Benedetto Attili, segretari generali di Fp-Cgil, Cisl-Fp, Uil-Fpl e Uil-Pa, rinnovando la richiesta di incontro col governo Letta.
Si torna così coi piedi per terra quando invece servirebbe più spazio di manovra per gettare le basi per una nuova Pubblica amministrazione.
A chiedere miglioramenti e passi in avanti è sempre l’Europa, le cui indicazioni sono state recepite in un documento “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei Fondi comunitari 2014-2020”, elaborato dal Ministero per la Coesione territoriale d’intesa con i Ministeri del Lavoro e delle Politiche Sociali e delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.
Qui viene posto l’accento su alcune parole chiavi come l’opzione strategica “città” strettamente connessa al tema delle smart communities e ancora sull’innovazione di metodo “trasparenza” che riporta al concetto di open government in tutte le sue declinazioni.
Un punto fondamentale per la Pubblica amministrazione del futuro è poi “l’agenda digitale” che promuove l’accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione da parte delle Piccole e medie imprese per creare innovazione interna e generare nuove opportunità di mercato.
Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, intende addirittura affidare a un sottosegretario la semplificazione degli adempimenti burocratici delle imprese su lavoro e previdenza. In una audizione in commissione lavoro del Senato, Giovannini ha segnalato che il costo della burocrazia è stimato in 5 miliardi l’anno. La sfida starà nel far quadrare le aspirazioni a una Pubblica amministrazione migliore con le attuali condizioni del pubblico impiego. La Repubblica – Affari Finanza (Walter Galbiati)
Pubblica amministrazione. Dirigenti delusi da troppe riforme poco efficaci
Fondazione PromoPa. Il monitoraggio. Eccesso di leggi: trasparenza e anticorruzione sono arrivati insieme al nuovo Codice di comportamento e l’ingorgo è fonte di problemi organizzativi. La legge anticorruzione servirà «poco» per prevenire in modo efficace fenomeni degenerativi nella Pubblica amministrazione, la riforma della trasparenza è «abbastanza» utile nel garantire un livello adeguato di legalità ma aggraverà «abbastanza» o «molto» il lavoro negli uffici, anche perché trasparenza e anticorruzione arrivano insieme al nuovo Codice di comportamento e l’ingorgo è certamente fonte di problemi organizzativi.
Non è semplice trovare tracce di entusiasmo per l’inesauribile produzione normativa di questi anni fra i primi che sono chiamati ad attuarla, cioè i dirigenti della Pubblica amministrazione.
A sondarne umori, difficoltà e prospettive è la settima edizione della «Pa vista da chi la dirige», il monitoraggio annuale che la Fondazione PromoPa presenterà dopodomani nell’ambito del Forum Pa di Roma.
I dirigenti pubblici appaiono piuttosto stanchi, e c’è da capirli. Appena usciti dal dibattito cresciuto intorno alla riforma Brunetta del pubblico impiego, proprio quando iniziava il tempo dell’applicazione delle nuove regole gli uffici pubblici sono stati travolti dalla serie infinita delle nuove «emergenze»; affrontate con norme che ogni volta promettevano di «rivoluzionare» l’organizzazione, seguendo però priorità e percorsi spesso divergenti fra loro.
Un caso evidente è quello degli incentivi in busta paga legati al merito, che hanno rappresentato uno dei pilastri proprio della riforma Brunetta. Secondo i diretti interessati, la parola d’ordine legata all’abbandono dei premi a pioggia in favore dei bonus collegati ai risultati avrebbe avuto un ruolo importante nel favorire il raggiungimento degli obiettivi, con un netto aumento del favore fra il 2007 e il 2013: peccato, però, che tutto il sistema degli incentivi sia stato travolto dal blocco degli stipendi, che ha finito per congelare la situazione precedente, e poi dalle norme sulla revisione di spesa.
Quando poi si chiede ai dirigenti un consuntivo dell’efficacia ottenuta dai tagli della spending review nell’individuare sprechi e inefficienze, il 49,1% risponde che le nuove regole sono state «poco efficaci», mentre il 32,2% se la cava con un «abbastanza»: gli entusiasti, secondo i quali la spending review ha centrato «completamente» gli obiettivi per cui è stata pensata, sono 6 su mille.
Pochini. Tutto male, dunque? Non proprio. Un giudizio tendenzialmente migliore viene riservato dai dirigenti alle regole sulla digitalizzazione di procedure e servizi e alla spinta per l’utilizzo della Posta elettronica certificata, e cresce drasticamente la quota di dirigenti che guardano al proprio ruolo come a quello di «civil servant»: sempre che le regole li mettano in condizione di esercitare davvero questa funzione. Il Sole 24 Ore – Gianni Trovati
Ricerca. Pa, i dirigenti italiani sono i più vecchi d’Europa
L’età media della classe dirigente italiana impegnata nelle politica, nell’economia e nella pubblica amministrazione è di 58 anni, la più alta tra tutti i Paesi europei.
È quanto emerge dal secondo report sull’età media della classe dirigente italiana, presentato all’Assemblea dei giovani della Coldiretti e realizzato in collaborazione con il Gruppo 2013.
Il forte ringiovanimento che ha interessato la classe politica impegnata nelle istituzioni (48 anni l’età media di deputati e senatori), non ha però coinvolto – sottolinea Coldiretti – i potenti impegnati nelle altre attività.
A conquistare il triste primato dell’anzianità sono le banche, che hanno una età media degli amministratori delegati e dei presidenti di circa 69 anni, addirittura più elevata di quella dei vescovi italiani in carica. Seguono da vicino i presidenti dei Tribunali delle città capoluogo di Regione, che hanno in media oltre 65 anni, con 9 casi su 20 che superano i 70 anni. Molti capelli bianchi anche nel mondo della formazione, con i professori universitari italiani che hanno una media di 63 anni, i più anziani del mondo industrializzato. La Repubblica – Affari Finanza
Pubblica amministrazione. Non è una burocrazia per giovani
Ricerca di ForumPa: sotto i 35 anni solo il 10% dei dipendenti, mentre in Francia sono il 28%. Problematica anche la formazione del personale e la distribuzione geografica. I luoghi comuni sulla pubblica amministrazione sono veri a metà.
Non è esatto dire, per esempio, che i dipendenti pubblici sono tanti e costano troppo, mentre trova riscontro il fatto che sono soprattutto anziani, mal distribuiti sul territorio e poco qualificati.
È quanto emerge da una ricerca di Forum Pa che verrà presentata nel corso della tre giorni di lavori romana dedicata all’universo pubblico. Che i dipendenti pubblici non siano poi così numerosi lo si evince anche dal rapporto con Paesi similari al nostro, come la Francia e la Gran Bretagna, dove a essere impiegati nella Pa sono, rispettivamente, il 20 e il 19% del totale degli occupati, contro quasi il 15% della realtà nostrana.
E anche se si allarga lo sguardo ai Paesi Ocse, il numero dei dipendenti pubblici italiani – sempre riferito al totale della forza lavoro – occupa comunque posizioni intermedie. Così come è per i costi del personale pubblico in rapporto al Pil: qui da noi è del 10,8%, poco sopra la media europea (10,6%, che è anche il valore riscontrato nel Regno Unito), lontano dalla performance tedesca (8,1%), ma al di sotto della quota francese (13,3%).
Le similitudini con gli altri Paesi finiscono però qui. Per il resto, la fotografia del pubblico impiego italiano delinea una situazione quale la si sperimenta quotidianamente: ovvero, quella di una burocrazia poco efficiente. I motivi sono diversi. Intanto, la distribuzione territoriale dei dipendenti pubblici: si va dai 91 addetti ogni mille abitanti presenti in Valle d’Aosta ai 41 della Lombardia. La situazione non cambia se il rapporto lo si fa con il totale degli occupati: il risultato è che in Calabria si hanno 127 dipendenti pubblici ogni mille occupati e in Lombardia 59.
A questo elemento si deve aggiungere il fattore età: i lavoratori pubblici italiani al di sotto dei 35 anni sono sono solo il 10,3%, contro il 28% della Francia e il 25% della Gran Bretagna. Il rapporto si inverte se si guarda alla fascia d’età degli ultracinquantenni: da noi rappresentano il 44%, contro il 29% della Francia e il 30,7% del Regno Unito.
Questo significa che in Italia c’è poca propensione al cambiamento (e l’innalzamento dell’età pensionabile aggrava la situazione, poiché penalizza il turnover) e anche i costi ne risentono, perché i dipendenti anziani tendono – per automatismi di carriera – a posizionarsi verso le fasce medio-alte delle qualifiche, però con minimi ritorni in termini di produttività e di responsabilità.
E questo anche perché non si investe adeguatamente nella formazione del personale. In pratica, la nostra è una pubblica amministrazione di dirigenti, perché mentre il numero dei dipendenti si è ridotto, quello delle posizioni di vertice ha continuato ad aumentare, così che ora si può contare un dirigente ogni 11,5 addetti, mentre in Francia il rapporto è di uno a 33.
Ed è sempre il discorso dei costi del personale a soffrirne, perché se già la retribuzione media annua lorda del settore pubblico è mediamente più alta che nel privato – nel 2011 quasi 35mila euro contro 23mila; così, seppure con un divario ridotto (36mila euro contro 33mila), è pure in Francia, mentre in Gran Bretagna vince il privato (38mila euro contro i 34mila del pubblico) – le retribuzioni degli incarichi apicali prendono a lievitare, fino ai 259mila euro annui lordi dei dirigenti di prima fascia nelle agenzie fiscali.
Non va meglio neanche per quanto riguarda le quote rosa: le donne che lavorano nel pubblico sono più degli uomini (55%), ma in Francia raggiungono il 61% e nel Regno Unito il 65 per cento.
Non solo: i dirigenti donna sono molto pochi (questo anche negli altri Paesi). Per esempio, dei 254 direttori generali delle aziende sanitarie, nell’89% dei casi sono uomini. Qual è la ricetta per cambiare passo? Secondo Carlo Mochi Sismondi, curatore della ricerca, bisogna ripensare il perimetro dell’azione pubblica.
«Il motto deve essere: fare meno, ma farlo meglio, immettendo giovani formati alle professionalità che ora servono alla Pa (project manager, negoziatori, operatori di rete, economisti e sociologi dell’innovazione, ingegneri), favorendo l’uscita di chi non vuole o non sa adattarsi al cambiamento, responsabilizzando la dirigenza, che deve essere pensata come “tutta precaria”, non perché soggetta alla mano rapace della politica, ma perché deve rispondere alla legge dei risultati». Il Sole 24 Ore (Antonello Cherchi)
27 maggio 2013