di Luca Cifoni. Marianna Madia e Giuliano Poletti lo avevano spiegato chiaramente un anno fa, quando il testo del Jobs Act era ancora fresco di stampa: la riforma che introduce i contratti a tutele crescenti e modifica in senso restrittivo l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori riguarda solo il mondo del lavoro privato e quindi non si applica ai dipendenti pubblici.
Già all’epoca si era detto che con il riordino della pubblica amministrazione la linea di demarcazione tra le due realtà sarebbe stata chiarita e precisata. Ora dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha stabilito l’applicabilità ai dipendenti pubblici dell’articolo 18 così come modificato nel 2012, questa esigenza è ancora più forte e dunque al ministero della Pubblica amministrazione si lavora a norme che tolgano qualsiasi dubbio in proposito.
Norme che comunque non arriveranno molto presto: il decreto legislativo di riordino del lavoro pubblico fa parte del secondo blocco di provvedimenti attuativi che devono essere approvati, e all’interno di questo gruppo è calendarizzato in coda. Se ne parlerà insomma a 2016 avanzato, visto che tra l’altro ci sono 18 mesi di tempo per l’attuazione della delega su questa materia, rispetto all’approvazione della legge avvenuta la scorsa estate. Nel merito sarà ribadito che i dipendenti pubblici, i quali di norma entrano nella carriera lavorativa passando per un concorso, resteranno assoggettati alla disciplina preesistente al Jobs Act.
Per quanto riguarda il contratto di lavoro continueranno ad averne uno a tempo indeterminato del tipo applicato a coloro che – anche nel lavoro privato – sono stati assunti prima dell’entrata in vigore del Jobs Act: dunque tutele piene da subito e non crescenti, anche in caso di licenziamento. Questo vuol dire che nel caso in cui il relativo provvedimento risulti ingiustificato secondo la valutazione di un giudice, scatterà normalmente il reintegro. Salvo eventualmente – come confermato dalla Cassazione – i casi previsti dall’articolo 18 ridisegnato dalla riforma Fornero di tre anni fa. Va ricordato in ogni caso che nella vicenda specifica oggetto della recente sentenza la Corte, confermando il pronunciamento già emerso in tribunale e poi in appello, aveva dato ragione al lavoratore licenziato: per lui si sono aperte di nuovo le porte dell’ufficio perché il licenziamento era stato gestito da un sola persona e non da un organismo collegiale, come invece richiesto. E questa violazione della legge era da sola una causa di nullità tale da far scattare comunque il reintegro.
Dal Messaggero – 3 dicembre 2015