Dal salario accessorio, alle modifiche delle mansioni, alla mobilità, ai poteri dei dirigenti, fino ai licenziamenti. Il tema dell’applicazione delle norme sul rapporto di lavoro del settore privato alla Pubblica amministrazione è stato posto all’ordine del giorno da vari governi, a partire dalla privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico avvenuta nel 1993. Adesso il premier Renzi annuncia di voler intervenire con un nuovo Testo unico, attraverso il Ddl Madia all’esame del Senato.
Ma c’è davvero grande distanza tra i due mondi? Secondo gli esperti sì. A partire dal salario accessorio che nel privato rappresenta la parte variabile della retribuzione, contrattata in azienda o a livello territoriale. Dovrebbe essere così anche nel pubblico, ma la vicenda dei vigili urbani della Capitale (con l’indennità di disagio percepita anche da chi sta in ufficio) dimostra le resistenze al cambiamento. La riforma Brunetta ha introdotto strumenti di valutazione per porre fine all’erogazione dei premi a pioggia, attraverso una differenziazione su tre fasce, secondo il principio di 25-50 e 25. Al 25% del personale della fascia alta va il 50% delle risorse, al 50% della fascia media il restante 50% delle risorse, nulla al 25% della fascia bassa. Si tratta di un’innovazione rimasta sulla carta: «Anzitutto è mancata la volontà sindacale di intervenire con la contrattazione per implementare il salario accessorio come conseguenza dei sistemi di valutazione del personale – spiega Sandro Mainardi, professore di diritto del lavoro all’Università di Bologna – poi a causa del blocco dei contratti, in vigore dal 2010, in assenza di risorse disponibili, non si sono potuti premiare i pubblici dipendenti più meritevoli». Si prosegue, così con il principio del dare poco a tutti.
Sulle mansioni: «nel lavoro pubblico – aggiunge Arturo Maresca, professore di diritto del lavoro all’università la Sapienza di Roma – non c’è la cosiddetta promozione automatica come conseguenza dello svolgimento di mansioni superiori. L’accesso all’inquadramento superiore è affidato ai concorsi o alle procedure selettive. Ed anche il divieto di assegnazione a mansioni inferiori è più attenuato rispetto al privato». Uno dei nodi principali è il ruolo dei dirigenti: «Alla dirigenza viene negata la necessaria discrezionalità nell’utilizzo delle leve gestionali del personale sia quanto a politiche retributive che a promozioni – continua Maresca -. Per evitare discrezionalità gestionali tutto è regolato minutamente dalle norme, generando rigidità e contenziosi applicativi». Secondo Mainardi «per far funzionare la dirigenza pubblica va spezzato il rapporto con la politica»; il dirigente «deve essere più autonomo, va valutato sui risultati, in modo trasparente, e va pagato in modo adeguato come accade nel privato».
Sulla mobilità il decreto Madia ha fatto passi in avanti: è previsto il trasferimento entro 50 km anche senza l’assenso del lavoratore, mentre nel privato sono necessarie esigenze tecnico produttive per giustificare il trasferimento. Quanto ai licenziamenti, se nel privato con il Jobs act si sono drasticamente ridotti i casi di reintegra, modificando l’articolo 18, che nel pubblico ancora vige nella versione originaria dello Statuto dei lavoratori del 1970, senza aver subito modifiche dalla legge Fornero del 2012. Anche su questo punto il governo intende intervenire.
Il Sole 24 Ore – 3 gennaio 2015