È riconosciuta come la malattia più diffusa al mondo. In Italia sembra aver trovato terreno fertile su cui proliferare. Il contagio passa tra animali ma anche dall’uomo tramite il calpestio nelle zone infette e le ruote delle automobili. L’attività venatoria, messa in opera per cercare di arginare l’epidemia, in realtà non risolve il problema. Per Andrea Monaco dell’Ispra, essa «favorisce l’incremento demografico dei cinghiali». Necessario il prelievo selettivo, praticato 12 mesi all’anno, della ‘girata’, che utilizza un solo cane addestrato a ‘disturbare’ i cinghiali al covo anziché stanarli e forzarli alla fuga»
LA PESTE SUINA africana, la malattia animale più diffusa nel mondo, ha fatto di recente la sua comparsa a Roma dopo la scoperta del primo focolaio in Liguria-Piemonte. Serbatoio del virus sono i cinghiali. Anche se innocua per l’uomo, qualora la virosi arrivasse a contagiare zone di allevamenti suinicoli, migliaia di maiali morirebbero o andrebbero abbattuti e sarebbe una tragedia sanitaria ed economica. Non tutti sanno che i cinghiali sono stati importati dall’estero, in particolare dall’Est Europa, ad opera dei cacciatori. L’introduzione di questa massa di suidi oggetto di interesse venatorio ha portato all’ibridazione con il ceppo originario di cinghiale italiano (più piccolo e meno prolifico) provocandone la scomparsa e favorendo la moltiplicazione a dismisura di questi animali alloctoni. Il numero di cinghiali in Italia è stimato attorno al milione di esemplari. Si pensi che si possono riprodurre due volte l’anno partorendo fino a 9-10 piccoli alla volta. La specie è onnivora e può nutrirsi di tutto quello che trova, come ad esempio, i rifiuti debordanti dai cassonetti di Roma.
Per contenerne il numero occorrono misure basate su criteri scientifici indipendenti evitando di affidare la risoluzione del problema al mondo venatorio. Per esempio, il sistema di caccia tradizionale basato sulla cosiddetta “braccata”, che piace molto ai cacciatori che la praticano con tanti cani, paradossalmente favorisce l’incremento numerico dei cinghiali. Infatti è stato dimostrato che sparando agli esemplari più grossi considerati trofei più ambiti, si destrutturano le popolazioni perché diminuendo i maschi territoriali viene incrementato il numero di femmine e giovani che sono il motore demografico per nuove nascite.
«La caccia in braccata è una forma di prelievo critica — dice Andrea Monaco ricercatore dell’Ispra — in quanto favorisce l’incremento demografico dei cinghiali; invece è necessario incrementare il prelievo selettivo». Esso può essere praticato 12 mesi all’anno: «è la cosiddetta “girata”, che utilizza un solo cane addestrato a “disturbare” i cinghiali al covo, anziché stanarli e forzarli alla fuga come nel caso della braccata e la cattura con trappole e recinti». Suggerimenti tecnici qualificati affinché la pianificazione faunistica non sia solo gestione venatoria. «In Belgio — continua Monaco — in due anni hanno sconfitto la peste suina costruendo 300 km di recinzioni, posizionando trappole e eseguendo abbattimenti selettivi». Il segreto? Il ruolo determinante svolto dal loro corpo forestale e la collaborazione tra tutti i soggetti portatori di interesse, compreso il mondo venatorio che ha assunto un comportamento responsabile.
Il contagio non passa solo tra animali ma viene anche portato dall’uomo tramite il calpestio nelle zone infette e addirittura tramite le ruote delle automobili. All’isola d’Elba è stato creato un “Comitato per l’eradicazione del cinghiale” fatto non solo da ambientalisti ma anche da categorie economiche e sindacali (Wba, Elba consapevole, Italia Nostra, Orti di mare, Legambiente, Associazioni albergatori, Coldiretti, Confcommercio, Confesercenti, ecc.). Con un’indagine durata 6 mesi di lavoro consultando 450 articoli scientifici, il Comitato ha proposto la completa eradicazione dei cinghiali dal territorio insulare dove in passato era stato introdotto sempre dal mondo venatorio con il risultato di provocare il collasso di biodiversità e coltivi e danneggiare il turismo. Il Parco nazionale dell’Arcipelago toscano ha cercato di arginare la presenza di ungulati attraverso l’utilizzo di speciali gabbie e abbattimenti selettivi (dal 2008 al 2018, 12mila catture) senza peraltro riuscire a ridurne il numero. A peggiorare la situazione, nel 2018 la Regione Toscana (contraddicendo la propria legge regionale del 2016) ha dichiarato l’isola d’Elba “Area vocata al cinghiale”. Una scelta paradossale se si pensa che l’economia dell’isola, il cui territorio è coperto per il 50% da un ‘area protetta, è basata principalmente su un turismo di qualità.
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