Il governo fa marcia indietro sui tagli ai bilanci, ma non chiarisce la ripartizione di funzionie competenze dopo lo stop del referendum Problemi di manutenzione per le scuole e percorrenza limitata sul 30% delle strade. Lesorti degli enti nelle mani del prossimo esecutivo
Alessandro Barbera. Tra Parma e Cremona hanno chiuso un ponte sul Po. Stessa cosa è accaduta sul Rio Bavera, fra Cuneo e Imperia. A Latina fra San Felice e Terracina il ponte non c’è più: demolito. Fra Cerveteri e Bracciano c’è stata una frana tre anni fa, e lì è rimasta. Dal 12 ottobre Salcito e Trivento sono isolate da Campobasso. A Catanzaro due strade sono parzialmente chiuse al traffico, nell’imperiese sono tre. Per via delle cattive condizioni del manto stradale sul trenta per cento delle provinciali italiane c’è il limite di velocità a 50 o 30 chilometri orari, in molte è vietato il transito ai mezzi pesanti. Karl Marx amava dire che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. L’idea di abolire le province e trasformarle in enti di coordinamento fra Comuni non era sbagliata. Le vecchie amministrazioni, un retaggio dell’Italia preunitaria, erano ormai schiacciate fra Comuni e Regioni. Una volta assegnati a queste ultime i centri per l’impiego e fatte salve le funzioni minori su caccia e agricoltura, alle vecchie province sono rimasti due compiti di spesa: la gestione delle sue strade e la manutenzione delle scuole superiori. Servivano ancora un presidente, un consiglio provinciale retribuito e quarantamila dipendenti? Non si tratta però di funzioni che possono essere abbandonate a se stesse o lasciate senza fondi: stiamo parlando di 130 mila chilometri di asfalto e 5100 edifici per due milioni e mezzo di studenti.
Il nodo dei trasferimenti
Non era semplice abolire le province. Il processo inizia con Monti, insiste Letta, il governo Renzi tenta di arrivare in fondo. La legge di Stabilità per il 2015 impone tagli per quasi un miliardo l’anno per tre anni, la gran parte dei 3,7 miliardi che le amministrazioni ricevevano grazie a due entrate proprie: l’imposta di trascrizione sulle auto e una quota della tassa sull’assicurazione. La legge Delrio abolisce gli enti elettivi e li trasforma in «area vasta». Oggi il presidente della provincia e il consiglio sono scelti fra sindaci e consiglieri dei Comuni, che per quella funzione non ricevono un euro. Quasi la metà dei quarantamila dipendenti – circa sedicimila – sono stati trasferiti altrove, alle Regioni e nei tribunali. Nel frattempo la riforma costituzionale avrebbe dovuto cancellare le province dalla Carta e consentire al governo di chiudere il cerchio, spostando ai Comuni anche la gestione delle scuole superiori. L’esito del referendum del 4 dicembre 2015 ha fermato l’enorme macchina in mezzo al guado, e lì ha iniziato ad affondare. Incassata la sberla elettorale, il governo Gentiloni è corso ai ripari facendo l’unica cosa possibile: retromarcia. Se si esclude il costo dei dipendenti trasferiti negli ultimi due anni, le 76 province e le 14 aree metropolitane hanno ricevuto fondi che coprono gran parte dei tagli.
I fondi che mancano
Secondo le cifre che circolano a Palazzo Chigi e al Tesoro all’appello mancano complessivamente 420 milioni di euro. La Finanziaria per il 2018 ne stanzierà altri 350, le province ne rivendicano il doppio. Oggetto del contendere sono i dipendenti: i sindaci lamentano il fatto che le Regioni li assumono senza restituire il costo del trasferimento. Fra le proteste Palazzo Chigi ora ha imposto una sanzione per le Regioni furbette con un taglio del venti per cento al fondo regionale per il trasporto locale. Come testimoniano i casi citati, il problema resta e il prossimo governo dovrà decidere che fare: se – nella migliore tradizione italiana – gestire l’esistente tamponando le falle, ritentare l’abolizione o ripensare il ruolo delle province. Non è, e non può essere solo un problema di risorse. Achille Variati è sindaco di Vicenza, presidente della sua provincia e dell’Unione nazionale: «Non siamo nemmeno buoni enti di gestione del territorio. Fra autorità di bacino, dei trasporti, consorzi di bonifica non ci si capisce nulla. Occorre rimettere in ordine quelle funzioni». Variati non lo ammette, ma fra questo e la ricostituzione delle province il passo è breve. Nei periodi di vacche magre capita però di fare scelte sagge: per far tornare i conti a Vicenza ha venduto agli spagnoli di Abertis per trenta milioni di euro il sei per cento nell’autostrada Brescia-Padova. Stessa cosa hanno fatto i colleghi di Verona e Brescia. Due piccioni con una fava: una poltrona in meno, più soldi per sistemare le provinciali. Dice Variati: «Nessuno nega ci fossero sprechi, ma il governo deve essere capace di valutare caso per caso. Qui di sprechi ne abbiamo fatti pochi». Detto dal presidente di una lobby nazionale, è un passo avanti. Alessio Pascucci è sindaco a Cerveteri con una lista civica di centrosinistra. Dottore di ricerca in ingegneria, 35 anni, guadagna duemila euro netti al mese per governare un Comune di quasi quarantamila abitanti. Poco prima di essere rieletto ha fatto approvare il primo piano regolatore della città, cosa che non deve essere piaciuta a chi ha lanciato una molotov davanti casa dei genitori. La riforma Delrio lo fa partecipare gratuitamente ai consigli della città metropolitana di Roma dove è presidente della commissione bilancio. Qui la faccenda ha del kafkiano.
Il vuoto di potere a Roma
La legge prevede che il presidente della ex provincia non sia eletto; su quella poltrona siede di diritto Virginia Raggi. C’è un però: poiché i consiglieri vengono invece eletti secondo un criterio che tiene conto dei cittadini rappresentati, la Raggi governa un ente in cui il suo partito (pardon, movimento) è in minoranza. Pascucci è convinto che questo caos sia un problema per tutti: «Ai consigli la Raggi non viene mai. E mi sento di dire che con i problemi che ha in Campidoglio la capisco pure. Capisco anche il clima di rassegnazione negli uffici: la gran parte dei dirigenti e dei funzionari è senza guida e non sa che fare». La storia delle città metropolitane meriterebbe una puntata a parte: immaginate negli Anni Novanta sul modello francese, avrebbero dovuto sostituire i Comuni delle grandi città come Roma, Milano, Torino e Napoli. Oggi ce ne sono quattordici, si sovrappongono inutilmente e non servono quasi a nulla. «Le basti sapere che il bilancio preventivo 2017 di Roma (quello che si vota prima, e non dopo un anno di amministrazione) lo abbiamo approvato pochi giorni fa». Pascucci ha votato no al referendum, vorrebbe la ricostituzione delle province e spiega perché: «Il problema è l’esondazione delle Regioni, nate per legiferare e invece oggi impegnate ad amministrare. Il livello intermedio è schiacciato. Mi spiega che senso ha rivolgersi alla Regione Lazio e partecipare a un bando per finanziare questa o quella iniziativa?».
Pascucci racconta di strade smottate e scuole in difficoltà, spesso senza gli impianti a norma. «A Fiumicino la preside non ha spazio per le nuove sezioni. A Ladispoli c’è una scuola nuovissima, peccato non abbiano i soldi per costruire la palestra». A mettere una toppa sono i piani sulla «buona scuola» e «scuole sicure», ma anche in questo caso le province hanno fatto la parte dei parenti poveri. «Secondo i nostri calcoli gli istituti superiori hanno usufruito solo del 16 per cento di quei fondi», racconta la portavoce dell’Upi Barbara Perluigi. Le ragioni sarebbero molte, non ultimo il fatto che il primo bando dava la precedenza ai sindaci che chiedevano fondi attraverso un modulo da spedire a Palazzo Chigi.
L’aiuto europeo
La situazione è poi migliorata grazie all’arrivo dei bandi della Banca europea degli investimenti dedicati all’edilizia scolastica (maledetta Europa). «Non c’è dubbio che le province abbiano fatto più sacrifici di chiunque altro», ammette Luigi Marattin, consigliere a Palazzo Chigi, professore a Bologna ed esperto di enti locali. «Per ritrovare un assetto stabile servono due cose: rimettere in equilibrio le risorse, e credo che questo sia stato fatto. La seconda è ripensare l’ente, le sue funzioni di coordinamento e regolamentazione dei servizi pubblici locali». L’importante – si potrebbe aggiungere – è evitare di tornare al punto di partenza. I siciliani, che in fatto di istinti gattopardeschi non conoscono rivali, hanno ripristinato le province tali e quali: l’Assemblea regionale l’ha fatto poco prima di Ferragosto a legislatura finita con un blitz degno di Arsenio Lupin. Le hanno chiamate «liberi consorzi» e l’ultima Finanziaria regionale gli assegna pure una ricca dotazione: ora il governo ha impugnato tutti gli atti di fronte alla Corte costituzionale. «Spero si possa parlare di tutto ciò già in campagna elettorale, magari concentrandosi sul merito dei problemi. Me lo auguro anzitutto da cittadino», aggiunge Marattin. Se lo augurano anche a Parma, Cremona, Cuneo, Imperia, Latina, Roma, Campobasso, Catanzaro e tutti gli italiani che percorrendo una provinciale si chiedono se sia normale pagare così tante tasse e trovare le strade in quelle condizioni.
La Stampa – 23 ottobre 2017