Per intervenire sugli organici necessario riorganizzare le competenze degli enti ma le Regioni ancora non hanno legiferato. Un mosaico difficile da comporre, un sistema a incastro più complicato del cubo di Rubik. È la riforma delle Province, dal primo gennaio pienamente operativa. Dall’inizio dell’anno sono, infatti, partite anche le otto città metropolitane, ad eccezione di Reggio Calabria (il cui decollo era già previsto slittasse) e Venezia, al momento commissariata dopo il coinvolgimento dell’ex sindaco, Giorgio Orsoni, nello scandalo Mose.
La situazione di Venezia, per quanto ingarbugliata, non è però il problema principale. Il nodo vero è che la riforma di città metropolitane e Province – voluta dalla legge Delrio (la 56 del 2014) – esiste solo sulla carta. Per ora è un sistema vuoto. O anche fin troppo pieno, se si guarda al personale che dovrebbe essere sfoltito, ma non si sa come.
La base da cui partire dovrebbero essere le funzioni redistribuite tra Stato, Regioni e Province. Le Regioni, che avrebbero dovuto dire la loro entro il 2014, non hanno, però, ancora fatto nulla. O quasi.
Secondo le rilevazioni dell’Unione province italiane (Upi), per quanto riguarda gli enti a statuto ordinario (le Regioni speciali seguono percorsi propri), otto – Toscana, Marche, Emilia Romagna, Basilicata, Umbria, Calabria, Molise e Campania – non hanno adottato alcun atto legislativo per ripartire le funzioni residuali delle Province. Altre sette amministrazioni – Lazio, Abruzzo, Puglia, Piemonte, Lombardia, Liguria e Veneto – hanno approvato delibere di giunta, impegnandosi a presentare proposte di legge sulla distribuzione delle competenze.
La storia risale alle prime fasi di applicazione della legge Delrio. A ottobre si svolgono le elezioni per indicare gli apparati delle nuove Province e delle città metropolitane. La prima novità è che non sono stati i cittadini a eleggerli, ma i sindaci e i consiglieri dei Comuni che fanno parte della provincia o della città metropolitana. Vanno al voto 64 province (le altre eleggeranno giunte e consigli man mano che scadranno quelli in carica) e le otto città metropolitane (Reggio Calabria e Venezia escluse).
Da quel momento è partita la corsa alla modifica degli statuti delle Province e alla predisposizione ex novo di quelli delle città metropolitane. Operazione che andava conclusa entro fine 2014. A tutt’oggi, però, mancano all’appello ancora tre città metropolitane (Napoli, Torino e Bari) e un buon numero di Province.
Le difficoltà, però, non sono solo queste. Nuovi problemi arrivano con la legge di stabilità 190/2014. La manovra di fine anno, infatti, taglia di un miliardo di euro, a partire dal primo gennaio, le risorse di Province e città metropolitane. «Importo che sale a 1,2 miliardi – spiega Piero Antonelli, direttore dell’Upi – per effetto di precedenti interventi». Non solo. Chiede agli enti riformati di ridurre la spesa per il personale: del 50% quella delle Province, del 30% quella delle città metropolitane. Secondo le prime stime, in questo modo più di 19mila dipendenti dovrebbero essere ricollocati presso altre amministrazioni.
I veri problemi partono da qui. Perché la pesante riduzione degli organici è subordinata alle funzioni che resteranno alle Province (una parte delle quali sono indicate dalla legge Delrio) e a quelle che passeranno allo Stato e alle Regioni. Roma ha già detto la sua con l’accordo sottoscritto a settembre con Regioni, Comuni e Province, a cui ha fatto seguire il decreto 26 settembre (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 12 novembre). Le Regioni, invece, sono – come detto – ancora al palo.
Tutto questo mentre il tempo per l’attuazione del programma imposto dalla legge di stabilità ha cominciato a scorrere. Entro fine marzo va, infatti, individuato il personale che resta nelle Province e nelle città metropolitane e quello da mettere in mobilità, procedura quest’ultima che si aprirà dal primo aprile. Operazione che, però, presuppone che si sappia dove sistemare i dipendenti in mobilità. Per questo Regioni e Comuni dovrebbero effettuare una ricognizione degli eventuali posti da coprire con gli organici di troppo degli enti riformati. E lo stesso dovrebbe fare la Funzione pubblica con le altre amministrazioni centrali e periferiche, in modo da capire quali spazi esistono per le ricollocazioni.
Passaggi che, alla luce di quanto fin qui (non) fatto, appaiono complicati. «Si tratta di un progetto insostenibile – aggiunge Antonelli – anche perché non dobbiamo dimenticare che nel frattempo le Province devono già fare a meno di un miliardo di euro».
Senza considerare che strada facendo si sono persi pezzi della riforma. Per esempio, era previsto che entro ottobre le amministrazioni riorganizzassero, in un’ottica di efficienza e risparmi, la propria rete periferica individuando ambiti territoriali di riferimento che non coincidessero necessariamente con gli spazi delle province o delle città metropolitane. Nessuno, però, quei piani li ha visti.
Il Sole 24 Ore – 12 gennaio 2015