di Carlo Petrini. Incrementare la domanda, dunque aumentare la produzione, dunque incentivare gli allevatori a produrre di più per vendere di più. Questo, in parole povere e forse eccessivamente schematiche ma efficaci, il piano del commissario europeo all’Agricoltura Phil Hogan che ha dichiarato, pochi giorni fa, di volersi impegnare a stanziare 15 milioni di euro all’anno per promuovere il consumo di carne in Europa, ai quali se ne aggiungeranno altri 4 dal prossimo anno per aprire nuovi mercati per la carne bovina europea all’estero (se ci fosse bisogno di specificarlo, il commissario ha in più occasioni espresso il suo parere favorevole ai trattati di libero scambio con Stati Uniti e Canada, Ttip e Ceta).
Il problema del reddito dei produttori è centrale, e su questo non si discute. Troppo spesso le produzioni agricole (e l’allevamento è tra queste) non garantiscono una remunerazione adeguata a chi le realizza, e si creano situazioni paradossali in cui le materie prime alimentari vengono scambiate a un prezzo inferiore rispetto al loro costo di produzione, impoverendo i produttori e, spesso, estromettendoli dal mercato. Ora, se questo è indiscutibile, appare quantomeno anacronistica la proposta del commissario Hogan. L’allevamento industriale è infatti uno dei principali responsabili delle emissioni di gas serra (14,5% del totale) e occupa oltre il 70% dei terreni agricoli, portando con sé deforestazione, perdita di biodiversità, impoverimento del suolo e depauperamento delle risorse idriche. E un incentivo ai consumi come quello proposto favorirà inevitabilmente questo modello di allevamento, non certo quello sostenibile delle aziende che gestiscono pochi capi e che hanno come riferimento il mercato locale. Invece di promuovere il consumo di carne, pertanto, bene farebbe la Commissione a qualificarne il consumo, premiando quegli allevamenti che lavorano in maniera sostenibile (magari a ciclo chiuso, con le deiezioni usate per concimare i campi su cui si produce il mangime per gli stessi animali che vengono allevati), che sono attenti al benessere animale, che utilizzano razze autoctone, che portano sulle tavole degli europei una carne migliore, più sana e meno dannosa per l’ambiente. Per non parlare dell’aspetto sociale, perché non bisogna dimenticare che i piccoli allevamenti costituiscono spesso una forma di reddito importantissima in aree marginali che diversamente rischiano lo spopolamento e l’abbandono, con le conseguenze che questo processo si porta dietro in termini di perdita di reti sociali, di non mantenimento di territorio e paesaggio con conseguente rischio idrogeologico e di urbanizzazione selvaggia.
Oggi in Europa ogni singolo cittadino consuma in media quasi 80 chili di carne all’anno, una cifra già troppo alta che non ha senso cercare di incrementare ulteriormente e che invece andrebbe ridotta, come da linee guida di salute pubblica emanate dalla stessa Unione europea. Bruxelles ha infatti chiaramente sottolineato, anche recentemente, come nei paesi occidentali un eccessivo consumo di carne favorisca l’insorgenza di gravi malattie e, di conseguenza, di ulteriori costi per i sistemi sanitari nazionali. Un reddito equo per chi produce non deriva dall’aumento delle quantità, al contrario da un maggior valore aggiunto del prodotto finale. Ma come si crea questo maggior valore aggiunto? Bisogna educare i cittadini a mangiare meno carne ma migliore (spendendo anche qualcosa in più nell’immediato ma risparmiando in salute e diminuendo gli sprechi), non c’è altra via. In questo modo si favorirebbe un reale cambio di paradigma e si indicherebbe una via di sviluppo vero per l’allevamento europeo. Diversamente si ritorna nel circolo vizioso della disperata ricerca di economie di scala che sono figlie di una logica industriale che male si adatta al comparto agricolo e alimentare.
Ci stiamo avvicinando alla Cop22, la conferenza mondiale sul clima che si terrà a Marrakech all’inizio di novembre. La mossa del commissario Hogan non è certo un bel segnale per comunicare l’impegno che l’Europa vuole portare al tavolo dei negoziati. L’allevamento ha un impatto pesante sul cambio climatico, e la risposta non può essere quella di aumentare i consumi, perché per risolvere un problema oggi (ammesso che la misura proposta possa in qualche maniera risolverlo) ne aggraviamo uno che è già enorme oggi e che esploderà domani.
Non saranno gli incentivi ai consumi né i trattati di libero scambio che salveranno l’agricoltura europea. La strada è invece quella dell’educazione e dell’informazione dei cittadini, che sono coloro che devono costituire la massa critica necessaria ad affermare che un modello iperproduttivista non si addice a un’idea di futuro degno, giusto e salubre per tutti.
Repubblica – 30 ottobre 2016