Uscite lievitate del 75% in 10 anni. In nome dell’«autonomia». Dalla Sicilia al Piemonte, i governatori hanno trasformato i loro territori in «zone franche». E le differenze tra le varie aree del Paese sono abissali
«Ben 454 mila euro per la Zelkova!». Letta la notizia, i siciliani hanno pensato: «Deve essere una slava del giro delle Olgettine». Macché: è una pianta rara che la Regione vuol tutelare iniziando con l’assumere («appurata l’esiguità di personale in organico»: sic) un consulente da 15= mila euro. Fulgido esempio di come le Regioni, in nome dell’autonomia, siano spesso sorde agli appelli a stringere la cinghia. Scrive Raffaele Lombardo sul suo blog che quella varata giorni fa «è una finanziaria di straordinario rigore». Sarà… Ma certo gli stessi giornali isolani denunciano da settimane come l’andazzo sia sempre lo stesso.
Ed ecco la decisione di salvare il Cefop (uno dei carrozzoni della «formazione professionale» che da decenni ingoiano da 250 a 400 milioni l’anno dando lavoro a circa ottomila formatori pari al 46% del totale nazionale) seguendo il modello Alitalia con la creazione d’una «bad company» su cui caricare i debiti pari a 82 milioni per dare vita a una nuova società «vergine» da sfamare subito con altri 29 milioni e mezzo. Ecco la scelta di chiedere al governo di usare 269 milioni di fondi Fas (destinati alle aree sottosviluppate) per tappare una parte della voragine sanitaria. Ecco l’idea di accendere un nuovo mutuo da 50o milioni. Ecco la delibera che autorizza i Comuni, nel caso siano in grado di farsene carico (aria fritta elettorale: le casse comunali sono vuote) ad assumere 22 mila precari in deroga ai divieti nazionali. E via così. Fino alle storie più stupefacenti, come quella di Zorro, il vecchio cavallo donato dal governatore a Villa delle Ginestre, dove curano i pazienti con lesioni spinali, perché sia usato per l’ippoterapia e messo a pensione a 2.335 euro al mese (il doppio di quanto costa il trattamento di un purosangue compresa la fisioterapia in piscina…) senza che ancora sia stata comprata, per i malati, manco la sella. Passi lo Stretto risalendo verso nord e leggi sul Corriere di Calabria che Pietro Giamborino, dopo una sola legislatura da consigliere regionale, è appena andato in pensione a 55 anni (rinunciando al 5% del vitalizio), dopo che milioni di italiani hanno visto allontanarsi il giorno dell’agognato ritiro dal lavoro fino a 67 anni. O che per le «spese di rappresentanza» del presidente dell’assemblea regionale Francesco Talarico sono stati stanziati per il 20121a bellezza di 185 mila euro. Più del doppio di quanto costò ai tedeschi nel 2006, sotto quella voce, il presidente della Repubblica Horst Kohler. Risali ancora verso nord e scopri che la maggioranza di destra che governa la Campania si è appena liberata dell’ingombro di dover trovare i soldi prima di fare una legge. C’erano voluti 9 anni per mettere dei vincoli seri. Nel 2002, ai tempi del primo Bassolino, era stata fatta una norma che imponeva di verificare, prima di ogni atto, la copertura finanziaria. Ma non era mai diventata operativa. Finalmente, nel marzo 2011, era stata votata l’istituzione presso la giunta regionale di un ufficio delegato a controllare la copertura finanziaria delle proposte arrivate in Consiglio. L’unico argine possibile ai deliri clientelari ed elettoralistici. Giorni fa, a dispetto della crisi e dei moniti del governo, ecco la retromarcia: grazie al voto di 24 consiglieri, le proposte di legge regionale non dovranno più avere il «visto di conformità» della struttura dedicata a fare le verifiche finanziarie. Per avviare l’iter di una legge, magari spendacciona, basterà una «relazione tecnica» degli «uffici della giunta regionale competenti in materia di finanze e bilancio». Tutta un’altra faccenda. Gli autori del blitz? Gli stessi sostenitori, come dicevamo, del governatore Stefano Caldoro che proprio su quel filtro abolito contava per arginare gli incontenibili rivoli di spesa. Caldoro, preoccupato per i conti, è passato al contrattacco con la proposta di introdurre anche nello statuto regionale il principio del pareggio di bilancio appena entrato nella Costituzione. Ce la farà? Mah… Assomiglia tanto a una lotta contro i mulini a vento. «Autonomia!», insorgono in coro i governatori tutte le volte che lo Stato centrale prova a sfiorare le loro prerogative. E sulla Consulta piovono valanghe di cause, quasi sempre coronate da successo. Ricorsi contro il limite di cilindrata delle auto blu. Contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali. Contro i pedaggi sulle strade dell’Anas. Contro l’Imu. Per non dire delle sollevazioni contro i tagli ai Consigli regionali: sono addirittura undici le Regioni che hanno contestato davanti alla Corte Costituzionale l’articolo 14 della manovra dello scorso agosto, l’ultima firmata da Giulio Tremonti, che imporrebbe alle loro assemblee, dalle prossime elezioni, una cura dimagrante di 343 poltrone. Undici. Motivazione? «E assolutamente necessario contrastare l’ondata di provvedimenti indirizzati contro le nostre prerogative», ha spiegato il governatore della Sardegna, Ugo Cappellacci. Il guaio è che, rivendicando stizzite questa autonomia («tocca semmai a noi tagliare le Province, tocca semmai a noi tagliare le indennità, tocca semmai a noi tagliare le poltrone…») tutte e venti le Regioni si sono trasformate in zone franche, dove la spesa pubblica va alla deriva. La prova? Fra 2000 e 2009, mentre il Pil pro capite restava fermo per poi addirittura arretrare di cinque punti, le uscite delle Regioni italiane sono lievitate da 119 a 209 miliardi di euro. Ormai rappresentano più di un quarto di tutta la nostra spesa pubblica. La crescita, dice la Cgia di Mestre, è stata del 75,1%: un aumento in termini reali, contata l’inflazione, del 53%. Oltre il doppio del pur astronomico incremento reale (25%) registrato nello stesso periodo dalla spesa pubblica complessiva, passata al netto degli interessi sul debito da 581 a 727 miliardi. Parliamo di 89,7 miliardi «in più» ogni anno, di cui appena la metà, ovvero 45,9 miliardi, addebitabili a quella sanità che rappresenta la voce più problematica dei bilanci regionali. In testa tra gli enti che più hanno accelerato c’è l’Umbria, dove le spese sono salite del 143%, seguono l’Emilia-Romagna ( 125%), la Sicilia ( 125,7%), la Basilicata (115,2%), il Piemonte ( 91,8%) e la Toscana ( 84,6%). Fosse aumentata così anche la nostra ricchezza, saremmo a posto. Il diritto (giusto) all’autonomia può giustificare certi bilanci colabrodo? E accettabile che la spesa sanitaria, dal 1978 di competenza regionale, presenti qua e là differenze abissali? O che ogni lombardo sborsi per il personale regionale 21 euro l’anno contro i 70 della Campania, i 173 del Molise o i 353 della Sicilia tanto che se tutte le Regioni si allineassero ai livelli lombardi risparmieremmo 785 milioni l’anno? Possiamo ancora permetterci le cosiddette «leggi mancia» che ad esempio hanno visto il Lazio spendere con 250 delibere a pioggia (tutte finite, dice l’Espresso, nel mirino della Corte dei Conti) qualcosa come 8,6 milioni di euro per iniziative che andavano dalla Rievocazione storica della battaglia di Lepanto a Sermoneta alla Sagra del carciofo di Sezze? Per non dire dei progetti faraonici, delle società miste nate a volte solo per distribuir poltrone, delle megalomanie. Venti Regioni, ventuno sedi di rappresentanza a Bruxelles: solo quella del Veneto è costata 3,6 milioni di euro. Venti Regioni, 157 piccole «ambasciate» all’estero, dagli Stati Uniti alla Tunisia. Venti Regioni, centinaia di sedi e immobili sparsi per tutta Italia. Spese inenarrabili. Un caso? Denunciano quelli di Sel che oltre alle sedi istituzionali la Regione Lazio dispone di 13 fabbricati a uso residenziale e 367 appartamenti. Malgrado ciò, spende ogni anno 20 milioni per affittare altri immobili. E ha deciso di dare il via a lavori di ampliamento della sede della Pisana, con la costruzione di due nuove palazzine. Costo previsto: dieci milioni. Una spesa indispensabile? Ed era indispensabile, di questi tempi, investire 16,3 milioni di euro come ha fatto il Consiglio regionale del Piemonte per rilevare e ristrutturare la ex sede torinese del Banco di Sicilia? O stanziare 87 milioni per la nuova sede del Consiglio regionale della Puglia, appaltata nello scorso mese di agosto? O spenderne addirittura 570 per la nuova sede della Regione Lombardia, una reggia con tanto di eliporto e di foresteria per il governatore costata 127 mila euro di soli arredamenti?
La scheda
I ricorsi alla Consulta Sono 11 le Regioni che hanno contestato davanti alla Corte Costituzionale l’articolo 14 dell’ultima manovra firmata dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che imporrebbe ai Consigli regionali, dalle prossime elezioni, un taglio di 343 consiglieri. La motivazione dei ricorsi: l’invocata «autonomia» in materia
Le uscite in crescita Fra il 2000 e il 2009, le uscite delle Regioni italiane sono lievitate da 119 a 209 miliardi di euro. La crescita, secondo la Cgia di Mestre, è stata del 75,1%: un aumento in termini reali, contata l’inflazione, del 53%, oltre il doppio di quello della spesa pubblica complessiva
Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo – Corriere della Sera – 26 aprile 2012