Luca Mercalli. La primavera italiana 2017 è stata tra le più calde da un paio di secoli, da quando cioè esistono le osservazioni meteorologiche, anche se gli agricoltori del Centro-Nord la ricorderanno soprattutto per le due rovinose notti di gelo di metà aprile. In base alle statistiche nazionali del Cnr-Isac, il trimestre marzo-maggio è stato il secondo tra i più caldi dal 1800 con quasi 2° in eccesso sulla media, dopo il caso record del 2007, e così anche in città come Parma e Bolzano. A Torino e Modena la stagione si è invece aggiudicata la terza posizione, sempre con il 2007 al vertice.
A guidare questa ennesima anomalia di caldo, che conferma una tendenza al riscaldamento atmosferico particolarmente vistosa in primavera, è stato soprattutto il mese di marzo. Con i suoi tepori anticipati aveva spinto in avanti di tre settimane lo sviluppo della vegetazione, esponendola così a gravi danni in occasione del temporaneo e non eccezionale ritorno del freddo del 20 aprile. Ma pure la seconda metà di maggio ha dato un contributo decisivo, con una vampata di calura degna di luglio, fino a quasi 35 °C nelle basse pianure lombarde ed emiliane.
Come se non bastasse, dall’inizio del 2017 è pure piovuto e nevicato poco su gran parte d’Italia, soprattutto al Nord e sulle regioni tirreniche e la Sardegna. Le precipitazioni totali da gennaio a maggio sono state talora pari a metà del normale, come nel caso del Cagliaritano, che ha ricevuto poco più di 100 mm di pioggia. La Sardegna si trova infatti a vivere una marcata penuria d’acqua proprio alle porte dell’estate mediterranea, che – di norma molto secca – ben difficilmente sarà in grado di migliorare la situazione.
Le zone in crisi
Ma non va bene neanche al Nord, specialmente in Emilia e Triveneto, zone già penalizzate da un inverno avaro di neve in montagna. Torino e Piacenza hanno raccolto circa il 40% in meno della precipitazione media nei primi cinque mesi, e se il Piemonte può almeno fare affidamento su un manto nevoso alpino che quest’anno è cospicuo sopra i 2500 m, i fiumi emiliani che scendono dagli Appennini ormai spogli di neve, sono già praticamente asciutti. Anche il Veneto è tra le regioni più colpite dalla carenza idrica: a Belluno il deficit di precipitazione gennaio-maggio è solo del 15%, ma sulle Dolomiti le riserve nevose in quota sono pressoché esaurite (solo nel 2003 la situazione era peggiore), e sulla pianura tra Vicenza e Treviso il livello delle falde è vicino ai minimi storici nonostante i temporali della prima metà di maggio.
Le previsioni
Inoltre nei grandi laghi prealpini lombardi (Como, Idro, Iseo e Garda) manca circa il 20% del normale invaso di fine primavera. Va meglio solo nel Friuli-Venezia Giulia, colpito dai diluvi di martedì scorso (oltre 100 mm intorno a Udine), ma soprattutto lungo l’Adriatico e in alcune zone del Sud, dove le intense precipitazioni di gennaio, quelle che seppellirono di neve l’Appennino centro-meridionale, fanno sì che in città come Ancona e Palermo il 2017 risulti per ora un anno più piovoso del solito: il capoluogo marchigiano ha raccolto 372 mm, il 40% in più del consueto. L’ondata di tempo caldo e asciutto che prenderà forma nel fine settimana e perdurerà almeno fino a mercoledì prossimo con temperature intorno a 35 °C al Nord e sul versante tirrenico, non potrà che inasprire la siccità in atto al Settentrione e in Sardegna, accentuando l’evaporazione e le esigenze idriche delle coltivazioni.
Queste anomalie climatiche per il momento sono vissute come temporanei fastidi, rilevati quasi solo dagli addetti ai lavori: agricoltori, operatori dei servizi idrici, energetici e sanitari. Per la maggior parte delle persone resta invece il buon ricordo di una primavera molto mite e favorevole al turismo. Non c’è ancora la percezione diffusa di quanto gravi siano questi sintomi del cambiamento climatico, anticipatori di crisi ben peggiori in un prossimo futuro. Di quali segnali abbiamo ancora bisogno per agire?
La Stampa – 9 giugno 2017