«Si dice che siamo in guerra ma è peggio, perché qui la gente non ha la possibilità di scappare, non ci si può neppure più muovere da un villaggio all’altro dal momento che per evitare la diffusione dell’Ebola i posti di blocco dell’esercito lasciano passare solo il personale sanitario autorizzato e anche il cibo comincia a scarseggiare».
La voce di Clara Frasson arriva da Pujehun, capitale dell’omonimo distretto rurale nel sud della Sierra Leone, una regione di 350 mila abitanti dove una ridotta minoranza vive delle miniere di diamanti e tutti gli altri sopravvivono con meno di 1,25 dollari al giorno. Da sei mesi Clara, veterana di Angola, Etiopia e Mozambico, è la responsabile locale di Medici con l’Africa Cuamm, l’organizzazione non governativa padovana diretta da don Dante Carraro e dedicata alla salute di mamme e bimbi in un Paese in cui fino al 2012 c’era un solo pediatra locale per un popolo di 6 milioni.
Clara Frasson si è insediata a Pujehun a marzo, un paio di mesi in anticipo sull’epidemia: oggi nel distretto si contano 12 vittime e almeno 240 persone in quarantena (in tutta la Sierra Leone i morti sono 414 e 1234 i casi di contagio). Il suo è il racconto dall’interno di una città sigillata come la Orano di Camus già prima del coprifuoco governativo di 4 giorni: «Il virus ha snaturato una comunità basata sulla socialità. Darsi la mano è proibito, chi s’incontra si tiene a distanza, le scuole sono chiuse e ospitano le persone in quarantena, i bambini stanno in casa a far nulla perché quasi nessuno ha la tv. Resiste l’abitudine pericolosissima di mangiare tutti dallo stesso piatto, perfino tra gli operatori sanitari locali, ma la consapevolezza aumenta. La caccia di scimmie e selvaggina è bandita e anche i mercati sono cambiati. Quello del pesce fresco di Gondapi, noto per richiamare commercianti da Liberia e Guinea, è fermo da due mesi. Rimane il mercato di Pujehun dove si trova ancora riso, olio di palma, cipolle, pesce secco e foglia di patata dolce. Ma i prezzi sono già aumentati di una volta e mezzo rispetto a qualche settimana fa perchè non ci si può più spostare e pian piano il cibo comincerà a scarseggiare».
Pujehun è sotto assedio. Ci sono militari ad ogni angolo e c’è la presenza della morte che si fa ogni giorno più invadente: «La gente ha paura dell’Ebola ma soprattutto delle strutture sanitarie. Ce ne sono 5 buone in tutto il paese, una è qui. Tutte le altre sono approssimative e le persone temono di essere isolate con facilità e abbandonate lì ad ammalarsi anche se sane. In queste condizioni è difficilissimo identificare i contagi, nessuno va più in ospedale neppure per partorire, sono aumentati i decessi in casa e i bimbi non vengono vaccinati».
Clara e i suoi colleghi si spostano con il permesso dell’autorità sanitaria, portano aiuti e speranza, ma è una sfida continua: «È anche la stagione delle piogge, il fiume Mua che divide il distretto non è attraversabile e due giorni fa, tra il fango e i check point dove ci controllavano la febbre, ho impiegato 8 ore per raggiungere un villaggio distante 130 km». Eppure la cinghia di trasmissione della salvezza è chi come lei può ancora muoversi: «Anche noi dobbiamo vincere la diffidenza. La sepoltura è un altro tabù. La gente la considera un momento sociale, non accetta che i morti di Ebola siano chiusi in un sacco e seppelliti in zone isolate. All’inizio ci tiravano i sassi, ora meno. Ma tutto sta mutando rapidamente: quando sono tornata in Italia per le ferie, ad agosto, gli aerei in partenza da Freetown erano presi d’assalto mentre la rotta contraria era deserta. Molte compagnie non volano già più sulla Sierra Leone e chi vola non lascia che il personale pernotti nel paese».
La Stampa – 8 settembre 2014