Credevamo che con l’approvazione del Def, il documento di programmazione economica si potessero conoscere gli interventi finanziari del Governo per l’anno 2025. Ma il documento, piuttosto snello, indica solo un quadro tendenziale senza indicare obiettivi peraltro di difficile realizzazione nella situazione di difficile reperimento delle risorse. Risorse che, ovviamente nei ministeri si stanno pensando come recepire con sempre più sospetti tagli di spesa.
Il capitolo previdenza sembrava sparito dall’agenda di governo. Ma non dall’orizzonte degli eventuali recuperi di finanza. E’, infatti, semplice intervenire su questo settore conoscendo gli aspetti strutturali dello stesso. Età delle coorti in attesa del pensionamento, importi delle pensioni in essere, numero dei pensionati. Il tempo delle baby pensioni è ormai lontano. Anche se non più tardi di un anno e mezzo fa erano ancora oltre 330mila gli assegni pagati dall’Inps a persone andate in pensione nel 1980, o ancora prima, grazie a requisiti di eccessivo favore. Ma, nonostante la lenta salita dell’asticella anagrafica previdenziale per effetto del ciclo di riforme degli anni ’90 e Duemila, che si è di fatto concluso con la legge ”Fornero”, peraltro interessata da diverse deroghe a colpi di Quote, resiste il folto gruppo delle cosiddette pensioni giovani, o quasi. Dall’ultimo monitoraggio dell’Inps sui flussi di pensionamento emerge che, al netto dei dipendenti pubblici, è destinato a soggetti con un’età inferiore ai 64 anni il 17,5% dei 17,7 milioni di trattamenti complessivamente erogati dalle gestioni dei lavoratori privati ed autonomi dell’ente (per un costo di 248,7 miliardi) a tutto il 1° gennaio 2024. Si tratta di 3,1 milioni di assegni, con una quota significativa di “invalidità”, che lievitano a oltre 5,4 milioni considerando anche la fascia di beneficiari tra 65 e 69 anni.
Le “misure ponte” varate con l’ultima legge di bilancio, da Quota 103 in forma “penalizzata” alla proroga di Ape sociale e Opzione donna in versione ulteriormente ristretta, dovrebbero tutte finire la loro corsa sostanzialmente il 31 dicembre 2024. Con lo stop a Quota 100 e il ricorso a Quota 102 e Quota 103 ,ora in versione “ penalizzata ” con l’aggancio al metodo di calcolo contributivo, la corsa ai pensionamenti anticipati ha già subito un chiaro rallentamento, anche nel pubblico impiego.
Poco probabile una riforma previdenziale sollecitata da diverse forze di maggioranza ma forse solamente da concepire e definire senza corse contro il tempo e possibilmente, sulla base di quanto affermato dalla Presidente del Consiglio, con il contributo di tutte le parti sociali. Che, però,dopo la serie di incontri, prevalentemente tecnici, dello scorso anno, nel 2024 sul tema della previdenza non sono state fin ad oggi ancora mai convocate dall’esecutivo, malgrado soprattutto i sindacati abbiano invocato a più riprese l’immediata riapertura del tavolo.
Invece se la terza legge di bilancio del Governo Meloni per il 2025 è complicata, per intanto appare possibile recuperare un “ tesoretto “ come al solito, sempre rappresentato dalle pensioni.
Sull’adeguamento delle aliquote di rendimento delle gestioni previdenziali si è già lavorato l’anno scorso, ma sono sempre in corso verifiche ulteriori, per trovare altre possibili soluzioni nell’ottica di un intervento complessivo. La riduzione percentuale di rendimento pensionistico, nella quota retributiva, era stata limitata, per le anzianità inferiori a 15 anni, con un’aliquota del 2,5 per cento per anno. Potrebbe essere possibile un ulteriore intervento per portare al 2 per cento annuo le aliquote relative alla così detta tabella A, sovrapponendola a quanto già previsto, dal 1993, per tutti gli iscritti all’Inps.
Sul fronte pensionistico è da tempo chiaro l’obiettivo di rallentare il più possibile le uscite anticipate puntando ai requisiti per la vecchiaia. E’ stato già visto con la quota 103 prevedendo un limite dell’importo pensionistico, peraltro interamente calcolato con il sistema meno favorevole del contributivo, attribuibile a quanti avessero voluto utilizzare quella condizione. Determinare le stesse limitazioni anche per le altre uscite anticipate ( 41 a e 10 mesi per donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini ) farebbe, da una parte ridurre l’interesse all’uscita, e risparmiare quote pensionistiche prevedendo l’intero importo maturato solo al raggiungimento dell’età prevista per il pensionamento di vecchiaia. Un’ulteriore restrizione potrebbe essere realizzata , anche, per le pensioni di reversibilità, già taglieggiate sulla base, illegittima, dell’eventuale reddito del sopravvissuto. La riduzione ulteriore della perequazione, cioè il recupero dei trattamenti a fronte dell’inflazione, ha raggiunto negli ultimi due anni tagli così marcati che riproporla o addirittura accrescerla appare veramente una follia.
Ma dove si ritiene si possano avere delle sgradevoli sorprese è nel così detto fronte delle “pensioni d’oro”. L’esempio forse più eclatante di un intervento per assimilarle concettualmente ad odiosi privilegi da abolire e a categorie di privilegiati da punire. L’obiettivo, è stato detto, allora, con non poca retorica, era quello di ristabilire l’equità e redistribuire le risorse così ottenute ai pensionati al minimo. E’ stata più volte denunciata la falsità dell’assunto, l’incongruenza della decisione politica e l’evidente illegittimità giuridica di un siffatto provvedimento. La stessa Corte costituzionale era stata chiara in merito: eccezionalità, proporzionalità, ragionevolezza, sostenibilità, transitorietà e carattere interno al sistema previdenziale sono caratteristiche imprescindibili di ogni eventuale prelievo sulle pensioni già erogate. Altrimenti tale prelievo avrebbe carattere tributario e dovrebbe essere applicato su tutti i redditi e non su un solo tipo di reddito. Belle parole ma quando c’è da raschiare il fondo del barile restano solo dell’esortazioni.
Claudio Testuzza Il Sole 24 Ore sanità