Con l’ingresso nel sistema previdenziale del calcolo contributivo esiste un rapporto stretto fra contributi e trattamento pensionistico. Il sistema permette di rapportare quanto si versa in tutta la vita lavorativa con la pensione che si potrà percepire. È pur vero che ancora oggi il sistema previdenziale italiano si basa sul criterio della ripartizione per il quale le pensioni in essere sono finanziate dai contributi dei lavoratori anziché sulla capitalizzazione, di quanto versato, secondo cui i contributi di ogni persona vengono investiti nel mercato dei capitali e ripagati al termine del periodo d’assicurazione. In questo modo ognuno risparmierebbe per se stesso. È chiaro, quindi, che il meccanismo della capitalizzazione è fortemente correlato a quanto viene versato ed è, quindi, proporzionale al proprio reddito.
La veemente critica sulla ricerca di risparmio da parte degli Enti previdenziali, con l’allungamento della vita lavorativa, la riduzione degli importi pensionistici e l’incremento dei contributi dovrebbe partire dalla constatazione di quanto viene destinato ogni anno all’erario e quindi di quanto viene dichiarato ai fini fiscali.
Il totale dei redditi prodotti nel 2021 e dichiarati nel 2022 ai fini Irpef è ammontato a 894,162 miliardi, per un gettito generato di 175,17 miliardi, in crescita rispetto ai 164,36 miliardi dell’anno precedente: 157 i miliardi dovuti all’Irpef ordinaria; 12,83 quelli dell’addizionale regionale e 5,35 quelli dell’addizionale comunale). Aumentano i dichiaranti (41.497.318 soggetti) e i contribuenti/versanti, vale a dire coloro che versano almeno 1 euro di Irpef, salgono a quota 31.365.535, valore più alto registrato dal 2008.
Ma, intanto, a ciascun contribuente, corrispondono però, di fatto, 1,427 abitanti. E quasi la metà (il 47%) non dichiara redditi. Nel dettaglio, la scomposizione per fasce di reddito rivela che da 0 fino a 7.500 euro lordi si collocano 8.832.792 soggetti, il 21,29% del totale, che pagano in media 26 euro di Irpef l’anno. I contribuenti che dichiarano redditi tra i 7.500 e i 15mila euro lordi l’anno sono invece 7.819.493, cui corrispondono 11,16 milioni di cittadini (il 18,84%). L’Irpef media annua pagata è di 358 euro e si riduce a 251 euro nel calcolo per abitante. Nel complesso, dunque, i contribuenti delle prime due fasce di reddito, il 42,59% del totale, pagano solo l’1,73% dell’Irpef complessiva.
L’anno scorso il 41 per cento dei contribuenti italiani ha dichiarato un reddito inferiore ai 15 mila euro. Si tratta di circa 16,7 milioni di persone, che hanno dichiarato in media 7 mila euro. Ci sono stati, poi, circa 5,5 milioni di contribuenti (il 13,5 per cento) che hanno dichiarato tra i 15 e i 20 mila euro, 6,7 milioni tra i 20 e i 26 mila euro (16,5 per cento), 5,9 milioni tra i 26 e i 35 mila (14,6 per cento), 4,6 milioni tra i 35 e i 75 mila euro (11,5 per cento) 542 mila tra i 75 e i 100 mila euro (1,3%).
Se consideriamo, poi, che il limite massimo reddituale su cui si versa il contributo previdenziale IVS (Inps) attualmente è di 113,520 euro si comprende che il sistema previdenziale è condannato a vivere sempre in crisi.
Le entrate complessive dell’Inps ammontano a 530 miliardi. Il gettito contributivo è di 260 miliardi. Le uscite complessive sono di 504 miliardi. Le uscite per pensioni ammontano a 283 miliardi. Per pareggiare questi bilanci, in sostanziale cronica passività, i trasferimenti posti a carico del bilancio dello Stato devono necessariamente concorrere al ripiano dei disavanzi delle singole gestioni.
Le entrate dell’Istituto vedono pertanto una sempre maggiore rilevanza dei trasferimenti dalla fiscalità generale. In pratica i pochi contribuenti al fisco con redditi dichiarati medio alti, e fra questi, in molti casi, gli stessi già pensionati, intervengono economicamente a supportare gran parte dei debiti dell’Inps.
Pochi contributi da redditi modesti o addirittura inesistenti daranno solamente possibili interventi assistenziali e non certo pensioni.
Soluzioni miracolistiche non ce ne sono e ancorché fossero disponibili i risultati li avremmo non prima di 20-25 anni. E allora bisognerà puntare a portare a galla una buona parte dei lavoratori “invisibili” presenti nel Paese. Stiamo parlando di coloro che svolgono un’attività in nero che ammontano a circa 3 milioni di persone per un sommerso di 173,9 miliardi e di evasori che, secondo l’Istat, hanno sottratto, sempre nel 2021 (ultimi dati analizzati), 83,6 miliardi di cui oltre 10,4 di contributi.
Appare, altresì, necessario incentivare ulteriormente l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, visto che siamo fanalino di coda in Europa per il tasso di occupazione femminile (pari al 50 per cento circa). Bisognerà rafforzare le politiche che incentivano la crescita demografica (aiuti alle giovani mamme, alle famiglie, ai minori, etc.) e allungare la vita lavorativa delle persone (almeno delle persone che svolgono un’attività impiegatizia o intellettuale). E poi, è necessario innalzare il livello di istruzione della forza lavoro che in Italia è ancora tra i più bassi di tutta l’Ue.
E, infine, nell’immediato distinguere i trattamenti pensionistici da quelli assistenziali. Ricordiamo che il 77,8% delle pensioni è di tipo Ivs (invalidità, vecchiaia, superstiti), mentre le assistenziali (invalidità civili, assegni e pensioni sociali, pensioni di guerra) costituiscono il 19,4% del totale. Il rimanente 2,8% circa è rappresentato dalle prestazioni di tipo indennitarie.
Claudio Testuzza – Il Sole 24 Ore sanita