I salari reali italiani sono fermi da tempo ma, quando si tratta di incrementare il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti, politica e sindacati sembrano saper ricorrere solo a soluzioni, spesso fallimentari, che gravano sul già enorme debito pubblico dello Stato e sui contribuenti onesti, come la decontribuzione previdenziale. L’Istat nella valutazione delle condizioni economiche del 2023 ha indicato lo stato dei conti relativi al reddito e al risparmio delle famiglie. Nel quarto trimestre del 2023, il quadro di finanza pubblica ha mostrato un indebitamento in miglioramento e una pressione fiscale in crescita rispetto al quarto trimestre dell’anno precedente.
Il potere d’acquisto delle famiglie, pur segnando una contrazione rispetto al trimestre precedente, registra una prima variazione tendenziale positiva dopo sette trimestri di flessione. La propensione al risparmio è aumenta sia rispetto al trimestre precedente sia rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. Si rileva un lieve aumento della quota di profitto delle società non finanziarie e una flessione del loro tasso di investimento. Nel 2023 il reddito disponibile delle famiglie è aumentato del 4,7%. Ma al netto dell’inflazione il loro potere d’acquisto si è ridotto dello 0,5%.
La spesa per consumi finali cresce del 6,5% e la propensione al risparmio delle famiglie cala al 6,3%, dal 7,8% del 2022, toccando il minimo dal 1995, inizio del periodo di riferimento dei conti. Nel 2023 le imposte correnti pagate dalle famiglie italiane sono aumentate di 24,6 miliardi di euro (+10,7% rispetto al 2022) per la crescita dell’Irpef (+10,2%) e delle ritenute sui redditi da capitale e sul risparmio gestito (+23,0%).
Tra il 1991 e il 2022 i salari reali in Italia sono rimasti sostanzialmente invariati con una crescita dell’1% a fronte del 32,5% in media registrato nell’area Ocse, imputabile soprattutto alla bassa produttività del lavoro.
Ci si è chiesto spesso di come si può fare per rimediare a questa perdita e migliorare le condizioni retributive dei lavoratori, rendendole molto più appetibili rispetto al lavoro irregolare che riguarda circa 4 milioni di soggetti, pari a circa 80/100 miliardi di compensi sottratti al fisco e anche all’Inps.
Parrebbe evidente che dovrebbero pensarci le cosiddette “parti sociali” che, dopo l’abolizione della “scala mobile” del 1992, hanno l’onere e il ruolo di mantenere il potere reale di acquisto dei lavoratori tramite i rinnovi contrattuali di primo e soprattutto secondo livello. Invece per mettere più soldi in busta paga o per ridurre il costo del lavoro e favorire le assunzioni, vista la crisi della contrattualità, sia le forze sindacali e politiche hanno optato per mettere a carico della fiscalità (cioè, dei pochi che pagano le tasse) questi oneri attraverso la riduzione dei contributi previdenziali, utilizzando il cosiddetto cuneo contributivo.
Per il 2024 ne sono stati previsti diversi, e soprattutto uno sgravio del 7% della contribuzione Ivs per i lavoratori con i redditi fino a 25mila euro (1.923 euro mese per 12 mensilità) e del 6% per i lavoratori con i redditi inferiori ai fatidici 35mila euro (2.692 euro/mese, tredicesima esclusa). Agevolazioni che producono un mancato gettito per Inps di circa 24 miliardi. La stessa Banca d’Italia, nell’audizione sulla Legge di Bilancio, ha dichiarato che: “Se il taglio del cuneo contributivo fosse reso permanente tale riduzione degli oneri previdenziali a carico dei lavoratori modificherebbe il nesso tra contributi versati e benefici erogati alla base del sistema pensionistico contributivo, con conseguenze che andrebbero attentamente valutate”. In pratica, lo Stato finge di incassare i contributi che invece vanno a favore di lavoratori ed imprese e poi, tramite le tasse, manda i soldi all’INPS, per pagare le pensioni come se fossero determinate anche dai contributi non versati, per un costo annuale di oltre 24 miliardi.
Ma vi possono essere interventi sostitutivi di questo gioco delle tre carte a carico di coloro che versano correttamente i contributi, quelli, cioè che hanno redditi superiori ai 35 mila euro, e soprattutto ai lavoratori e pensionati che versano regolarmente le tasse dovute? Una soluzione è rappresentata da quanto è stato introdotto dall’ottimo governo Draghi e dal successivo governo con il ministro Giorgetti che ha previsto, sulla retribuzione relativa ai fringe benefit o premi di risultato, la loro non assoggettabilità né a imposte né a contributi sociali. Evitando così oneri futuri per lo Stato e per le imprese perché su quella parte di retribuzione non viene calcolata la pensione e neppure il Tfr e le mensilità aggiuntive. Dopo i 3.000 euro introdotti solo per il 2022 dal Decreto Aiuti Quater, per il solo 2024 è possibile erogare, da parte delle aziende, 1.000 euro annui, per i dipendenti senza figli a carico e 2.000 euro annui, per i dipendenti con figli a carico, esenti da tasse e contributi. Queste somme, che sarebbe necessario armonizzare con la normativa sul welfare aziendale e che andrebbero rese stabili nel tempo, producono un aumento netto dei redditi da lavoro tale da recuperare la perdita di potere d’acquisto segnalata.
Claudio Testuzza – Il Sole 24 Sanità