La recente attenzione sugli aspetti di sanità pubblica veterinaria in un quadro One Health costituito dalla gestione della selvaggina, con particolare riferimento ai cinghiali quali causa di incidenti stradali, danni agronomici, serbatoio di importanti malattie a carattere zoonosico e di interesse prioritario per la sanità animale (vedi peste suina africana), porta a considerare anche gli aspetti di rischio alimentare legato alla presenza di contaminanti ambientali. Contaminanti che, per il tempo passato da questi animali a stretto contatto con terreni agricoli e peri-urbani, e la loro alimentazione a base di tuberi e radici, finiscono col riflettere la qualità generale ambientale del territorio.
Come la contaminazione delle acque superficiali da Pfas si riflette quindi sui livelli presenti nella risorsa ittica di cattura (si ricorda la recente proroga del divieto all’utilizzo alimentare delle specie ittiche presenti nei corsi d’acqua di alcuni comuni della zona rossa interessati dai Pfas, in Veneto), così quella dei terreni può riflettersi nella selvaggina, con specifico riferimento agli ungulati.
Il quadro della situazione
La popolazione degli ungulati selvatici, e in particolare quella dei cinghiali è in continua crescita, tanto che recentemente si sta considerando di valorizzare i loro abbattimenti anche a fini di contenimento demografico a scopi alimentari. Dai circuiti legati al consumo familiare, alla ristorazione locale, il cinghiale sta trovando sempre più sbocco a livello di grande distribuzione, in forma di salumi, inclusa la mortadella, e paté. Per un approfondimento su questo tema è possibile consultare gli atti del “SIVEMP VETTERME 2018 – valorizzazione della selvaggina cacciata. Una scelta buona, sana e sostenibile: da problema a opportunità”
Tuttavia all’aumentata fruibilità di queste carni non si è accompagnato, almeno fino ad oggi, un adeguato orientamento delle analisi per quanto riguarda le contaminazioni ambientali. Il Food Veterinary Office nella sua visita in Italia del 2018 ha sottolineato, nel report 2018-6343 come i controlli per contaminanti ambientali nella selvaggina cacciata fossero insufficienti.
In questo senso il Piano nazionale residui 2019 ha inteso colmare tale mancanza, con una attività mirata sulla ricerca di metalli pesanti nella selvaggina cacciata, dove in base agli esami trichinoscopici condotti nel 2017 si stima una quantità di circa 5418 tonnellate/anno di carne di cinghiale macellata.
Tale quantità è per stessa ammissione del Ministero sottostimata, in quanto gli esami trichinoscopici in alcune Regioni non vengono condotti su ogni singolo capo.
Di fatto in Italia gli ultimi dati censiti si riferiscono alla banca dati ungulati in Italia del 2009, tramite comunicazioni cartacee fatte dalle Regioni ad Ispra.
In questi giorni è in programma una riunione al Ministero dell’Ambiente per aggiornare se possibile in modo più continuo e fruibile, tale censimento, tenendo conto che la fauna selvatica fa parte del demanio e quindi è una proprietà dello Stato Italiano.
Efsa recentemente ha raccolto le informazioni disponibili in merito ai cinghiali abbattuti dai cacciatori in Europa e ha identificato alcune aree ritenute privilegiate per studiare la dinamica demografica dei cinghiali, e proceduto alla modellizzazione della loro presenza nelle differenti regioni europee.
Tornando a quanto evidenziato dal Fvo si apre la riflessione su perché non estendere le analisi sui cinghiali anche ai contaminanti organici normati per legge quali Pcb e Diossine. Nello specifico del Veneto tali ricerche potrebbero interessare anche i Pfas, analogamente a quanto e già avvenuto per la risorsa ittica. Tenendo conto della presenza in Regione di una fiorente attività venatoria e di un consumo alimentare del cinghiale da parte della popolazione veneta probabilmente anche superiore a quello del pesce di acqua dolce.
Le evidenze sui PFAS negli ungulati: bioindicatori di qualità ambientale
Recentissimamente, alcuni veterinari tedeschi con il supporto dell’Istituto Federale per l’analisi del Rischio (BfR), hanno analizzato gli andamenti temporali per la presenza di Pfos e Pfoa in fegati di cinghiali cacciati in differenti Lander della Germania, alcuni inquinati da Pfas per l’utilizzo di fanghi di depurazione particolarmente contaminati in agricoltura, altri riferiti a zone rurali da ritenersi con valori di fondo ambientale.
Le conclusioni dimostrano che nei cinghiali non si osservano trend in diminuzione per Pfoa e Pfos nei fegati negli ultimi 10 anni e che a parte le zone notoriamente contaminate (hot spots), con valori di Pfoa e Pfos fino ad un massimo di 1164 e 3250 ng/g nel fegato, i valori medi e mediani sono risultati di 8,8 e 1,5 ng/g per Pfoa e 179 e 133 ng/g per Pfos. I superamenti di tali valori di tendenza centrale si rilevano soprattutto negli animali abbattuti in vicinanza di centri urbani.
La spiegazione di tali riscontri viene indirizzata nell’utilizzo di fanghi di depurazione in agricoltura, notoriamente in grado di portare su suoli agricoli Pfos e Pfoa, in concentrazioni 1000-3000 volte superiori a quelle presenti nelle acque in entrata nel depuratore civile. Tale fattore di moltiplicazione della concentrazione può tenere conto anche della presenza di precursori di Pfos e Pfoa nelle acque immesse, che, i trattamenti biologici e di ossidazione dei fanghi, convertono appunto in composti C8. Recentemente, Legambiente è tornata su tale argomento per quanto riguarda il Veneto, auspicando una sospensione nell’utilizzo di tali fanghi e degli ammendanti da fanghi. La posizione di Legambiente di fatto comporta una revisione critica degli ambiti di applicabilità dell’economia circolare e del concetto di sostenibilità di rifiuti/non rifiuti di cicli non alimentari a circuiti alimentari.
Anche Efsa, nella sua opinione “provvisoria” dello scorso dicembre, pone l’accento sulla contaminazione della selvaggina, fatta oggetto di specifiche raccomandazioni di divieto di consumo per i cacciatori in alcune zone degli Stati Uniti impattate da Pfas, e negli hot spot tedeschi.
Le evidenze in Italia
Dalle presentazioni della Conferenza internazionale sui contaminanti organici alogenati (Firenze 2016) sono ricavabili utili informazioni riguardo al ruolo di sentinella ambientale dei cinghiali riguardo a Pfos. Gli andamenti percentili riportati nel fegato di cinghiali abbattuti in differenti parti dell’Italia, indicano come le aree del centro e sud Italia riflettano una migliore qualità ambientale dei terreni rispetto a quelle del Nord Italia e danno la misura di quelle che possano essere considerate contaminazioni di fondo.
Anche nel loro piccolo, il dato della presenza di Pfoa nel fegato dei suini allevati per macellazioni familiari riscontrato nel campionamento Pfas negli alimenti in Veneto, al di là delle incertezze riguardo una concentrazione di Pfos non in linea con le capacità di bioaccumulo di tale sostanza, unitamente alle raccomandazioni di evitare il consumo di fegato, costituiscono un elemento a favore di una maggiore considerazione del rischio selvaggina.
Conclusioni
Le dinamiche demografiche e sanitarie legate alla presenza del cinghiale e più in generale della selvaggina non allevata sul territorio italiano costituiscono una opportunità per il servizio veterinario pubblico di orientare le attività sulla base del rischio. In tale senso, le attività capillari sul territorio, danno la possibilità di georeferenziare la selvaggina, quale presupposto per un consumo responsabile ed informato, consumo responsabile che potrebbe tenere conto di uno spettro più ampio di contaminanti ambientali di interesse prioritario per la salute
Immagine 1 – Diffusione del Cinghiale in Eurasia – Fonte IUCN
Immagine 2 – Percentili di contaminazione del PFOS nel fegato di cinghiali abbattuti in differenti distretti italiani
(riproduzione ammessa solo citando la fonte – testo raccolto a cura della redazione)