Il percorso del decreto legge sulla povertà, la via maestra e veloce per introdurre in Italia il reddito di inclusione, è in salita. Senz’altro il tema resta tra le priorità del governo Gentiloni, assieme a giovani e Sud: i tre vulnus post referendum costituzionale. Ma in maggioranza sul punto non c’è concordia. Ne è una riprova la stasi della legge delega sulla povertà (che contiene anche il reddito di inclusione), pubblicata in Gazzetta ufficiale l’8 febbraio scorso, approvata alla Camera il 14 luglio, da fine settembre in commissione Lavoro del Senato e ancora in fase di audizioni.
Come mai? A Palazzo Madama dicono che il tempo è passato nell’esaminare la proposta delle opposizioni sul reddito di cittadinanza. Fatto sta che il presidente di commissione Maurizio Sacconi, gruppo Area popolare- Ncd, dopo l’intervista del ministro Maurizio Martina a
Repubblica sull’opportunità di un decreto legge (condivisa dal presidente del Pd Orfini), si dice pronto ad accelerare l’iter della delega, «trasformandolo in testo immediatamente dispositivo », in sintonia con la senatrice pd Annamaria Parente. Di fatto è un no alla corsia veloce del governo. Un modo per tenere il pallino in Parlamento. Ma anche una soluzione a metà: un disegno di legge va più spedito della legge delega (che richiede almeno sei mesi di lavoro per scrivere i decreti attuativi), ma meno del decreto legge. In ogni caso, non si passa dalla delega al ddl con uno schiocco di dita. Il testo esistente si limita a indicare principi e criteri direttivi, com’è nella natura della delega, il cui compito è passare la mano al governo per i dettagli.
E qui i dettagli pesano. Si tratta di passare dal Sia, il Sostegno per l’inclusione attiva, al momento esteso a tutta Italia dopo la sperimentazione in 12 città, al reddito di inclusione. E cioè da una misura da confermare e finanziare di anno in anno a un nuovo diritto sociale permanente. Per farlo, occorre declinare beneficiari e benefici: cioè quanto dare, a chi e in base a quali criteri rispetto agli attuali (reddito Isee fino a 3 mila euro annui, disoccupati con figli minori o disabili, donne in gravidanza). Definendo non solo il contributo monetario, ma pure il «progetto personalizzato», la famosa presa in carico dei centri per l’impiego e i servizi sociali che accompagnano il capo famiglia nel suo percorso di ricerca del lavoro. Punto dolente per molti Comuni.
Non sono scelte da poco. E il governo Gentiloni sembra non voler accelerare, nonostante gli auspici “riformisti” di Martina. Almeno non fino a quando la data delle elezioni resta fumosa. Anche perché la delega sulla povertà non parla solo di sostegno per chi non ce la fa. Ma anche del modo in cui trovare le risorse per aiutarlo. Ovvero quel «riordino delle prestazioni di natura assistenziale » (leggi: assegni sociali da legare all’Isee, tagliandone un po’) cruciale per finanziare l’intera operazione. Snodo fatale, proprio un anno fa, all’allora governo Renzi che aveva inserito nel riordino anche le pensioni di reversibilità, costretto poi a stralciarle, per le accuse di togliere alle vedove il frutto di una vita di lavoro dei consorti.
Per ora i soldi ci sono: 1,5 miliardi sia nel 2017 che nel 2018. Denari che rischiano di restare al palo. Ecco perché il ministro del Lavoro Poletti – in attesa che si sciolga l’arcano sul decreto assicura che il provvedimento ministeriale per il riparto regionale del miliardo e mezzo di quest’anno e i nuovi criteri del Sia sarà pronto entro marzo. Non è ancora il reddito di inclusione, ma a scanso di equivoci meglio mettere in sicurezza l’esistente.
Repubblica – 4 gennaio 2017