Se la riforma Fornero non cambia, «avremo un problema sociale». Ne è convinto Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, che rilancia la flessibilità in uscita, uno strumento per consentire a chi è vicino alla quiescenza e ha perso, o rischia di perdere il lavoro, di avere un reddito. Un problema serio da risolvere, ammette Poletti. Eppure il governo, alzando le tasse sui fondi pensione nell’ultima legge di Stabilità, non rende il futuro più roseo ai tanti lavoratori di oggi (specie giovani precari).
Il cantiere delle pensioni dunque si riapre, a fronte di almeno altri 46 mila esodati ancora da salvaguardare da qui al 2019. Però non subito. «Ora la priorità assoluta è fare i decreti attuativi del Jobs Act», chiarisce Poletti. «Non prevedo un’altra riforma, piuttosto suggerisco una manutenzione», conferma Pierpaolo Baretta, sottosegretario all’Economia. Che poi riferisce dell’impegno del Tesoro a «un intervento organico sulle partite Iva», dopo le penalizzanti modifiche al regime dei minimi apportate dalla legge di Stabilità.
Legge che rischia di far danni anche nel campo previdenziale, grazie all’aumento delle citate tasse sui fondi pensione. L’impatto della nuova aliquota – balzata in un sol colpo dall’11,5 al 20% – sarà quello di assottigliare l’assegno integrativo nel futuro. Un’assurdità, vista la progressiva magrezza delle nuove pensioni, complice la frammentazione delle carriere, il passaggio al contributivo puro con stipendi in media bassi, il Pil depresso di questi anni (a cui sono ancorate le nostre quiescenze). Colpire la previdenza integrativa non sembra dunque una mossa furba.
Basti pensare che tra il 50 e il 60% dei dipendenti privati versa il Tfr nei fondi, proprio per accumulare un tesoretto extra negli anni della vecchiaia. In tutto sono 6 milioni i lavoratori italiani iscritti, uno su quattro. Progetica ha quantificato per Repubblica le conseguenze della stangata fiscale decisa dal governo Renzi su tre profili di età: il trentenne, il quarantenne e il cinquantenne. E mettendo a confronto due tipologie di investimenti effettuate dai fondi: la gestione separata (molto prudente, solo titoli di Stato) e la linea bilanciata (rischio medio, un mix di azioni e obbligazioni). Ebbene, il risultato è disarmante: pensioni integrative più povere domani (fino al 13% in meno), oppure versamenti più salati oggi (fino al 12% in più) per mantenere lo stesso assegno futuro. I più penalizzati? I giovani, manco a dirlo. Un trentenne ad esempio, dopo la decisione del governo Renzi, deve versare 300 euro in più all’anno per avere la stessa rendita futura mensile di 500 euro. Oppure se paga, come ha fatto sin qui, circa 2 mila euro l’anno (cifra pari al versamento medio in Italia nella previdenza complementare), grazie al rincaro delle tasse perderà in futuro 700 euro all’anno. Un guaio. Renzi aveva promesso di intervenire. Ma la soluzione trovata, non ancora attiva (perché manca un decreto del Mef), quella del credito di imposta ai fondi pensione, non sembra poter avere una ricaduta sul lavoratore. Beffato due volte.
Repubblica – 23 gennaio 2015