Meno statistica, maggiore realtà. Il nuovo redditometro, nato da una legge del 2010, ma entrato in vigore dopo molte polemiche solo lo scorso anno, supera la boa del secondo tagliando. Il ministero dell’Economia ne rivede il paniere con un decreto datato 16 settembre e pubblicato due giorni fa in Gazzetta ufficiale.
E finalmente tiene conto delle osservazioni del Garante della privacy, di fatto già recepite dall’Agenzia delle entrate in una circolare del 2014. Mai più, dunque, stime Istat per desumere il tenore di vita del contribuente e dunque quanto spende nel quotidiano per pane, pasta, latte, scarpe e vestiti. La “ricostruzione sintetica” del suo reddito avverrà quasi totalmente a partire dai dati effettivi di spesa tracciata che l’anagrafe tributaria già possiede ed è in grado di recuperare. Quasi, perché un minimo di stime sarà comunque utilizzato per ricostruire le spese relative a beni immobili e mobili registrate, quali ad esempio barche, auto, case. Con una novità, tutt’altro che trascurabile. In presenza di dati reali, la stima cederà il passo e si useranno i primi. Maggior realismo, dunque, al servizio dello strumento principe anti-evasione per le persone fisiche, applicato a lavoratori dipendenti, pensionati, professionisti, ditte individuali, artigiani. La spesa dell’anno così ricostruita e più aderente al vissuto dei singoli viene messa a confronto con il reddito del contribuente. Uno scostamento superiore al 20%- uscite superiori alle entrate per oltre un quinto – fa scattare l’accertamento esecutivo dell’Agenzia delle entrate, perché considerato spia di evasione. Spetta poi al singolo dimostrare di aver acquistato l’abitazione, ad esempio, con i soldi dell’eredità, quelli regalati dai genitori o vinti alla lotteria. I nuovi criteri inseriti nel decreto del Mef, privato dunque delle “spese medie dell’Istat”, si applicano per gli accertamenti sui redditi a partire dal 2011 e non dal 2009, come prima fissato. E abbracciano oltre 100 voci di spesa, simili a quelle della precedente versione, ma organizzate secondo le due grandi macro- aree di consumi e investimenti. Nella prima ci sono alimentari, casa (e dunque mutuo, affitto, condominio, provvigione all’agente immobiliare), combustibili, mobili, sanità, trasporti, istruzione, tempo libero e animali. Tra gli investimenti, troviamo immobili e mobili registrati (per la parte che eccede mutui e finanziamenti), polizze, azioni, obbligazioni, quote di fondi comuni.
Non sfuggono, dunque, all’occhio attento del fisco né terme e spa e nemmeno centri di bellezza e abbonamenti alla pay-tv. Figuriamoci poi l’assegno periodico al coniuge e la retta dell’asilo nido. Chi possiede un cavallo dovrà tenere in conto che l’Agenzia delle entrate, se non ha fatture tracciabili, stimerà in 5 euro al giorno la spesa media prevista per il mantenimento in proprio dell’equino. Se invece si ricorre al maneggio, fra biada e affitto della stalla si sale fino a 10 euro, dunque 3.650 euro all’anno. D’altronde così funzionano i controlli incrociati che consentono il famoso “accertamento sintetico” della capacità contributiva. Si parte dalla spese – vere e in minima parte stimate- e si risale induttivamente al reddito del contribuente. Fatta salva, com’è ovvio, la prova contraria che può mettere sempre in un angolo la ricostruzione “sintetica”. Ciò che conta ora però è che le spese per beni e servizi di uso quotidiano rilevano solo se il relativo dato è desumibile su base certa. Alla fine, l’anagrafe tributaria ha la meglio sull’Istat.
Il Sole 24 Ore – 27 settembre 2015