«Qui la puzza è gratis. Soprattutto la sera, ma anche di giorno non ci fanno mancare niente». In effetti. Gli attuali ottomila maiali di Schivenoglia puzzano assai, «e quando diventeranno 20mila, si salvi chi può». Come sanno tutti gli italiani che convivono con un allevamento intensivo, sotto una cappa tremenda e acida, nel via vai dei tir che portano avanti e indietro animali vivi e morti, e cisterne di liquami in fila. Così è in questo angolo a sud del nord, nella pianura mantovana assolata dove un piccolo comitato sta battagliando per dire no all’ampliamento di un maialificio già esistente di un’azienda che si chiama Biopig, dove il bio è relativo.
Maura Cappi, presidente di Gaeta, che sta per Giusta Attenzione per Ecologia, Territorio e Ambiente, spiega cose semplici: «Qui siamo mille abitanti, saremo un cittadino per 20 maiali. Una situazione insostenibile per molti aspetti, l’impatto di questi numeri è terribile sul territorio, e su di noi, e sulle generazioni future». Per Cappi, che ha un’azienda agricola e premette che «naturalmente non siamo contrari al maiale», non è una questione di «non nel mio cortile», perché «se poi non lo costruiscono qui ma nel paese vicino, non cambia niente. È un problema di sostenibilità. I piccoli paesi non possono reggere il peso di un’industria del genere, e così inquinante». Per tornare al cortile, attualmente ogni abitante ne ha idealmente otto, di maiali. In futuro potrebbero essere venti, per una famiglia di quattro persone si parla di ottanta suini in giardino.
Il comitato Gaeta non è il solo a combattere, nelle province del nord. A Cadelbosco Sopra, provincia di Reggio Emilia, quelli di “Aria pulita” si oppongono all’ampliamento delle aziende Le Fontanelle e Aras, slogan: «Non un maiale in più». A Ceggia, provincia di Venezia, i residenti protestano e volantinano contro un allevamento di polli, «con un odore insopportabile che costringe tutti a restare sempre con le finestre chiuse». A Ceneselli, provincia di Rovigo, i cittadini hanno fermato la realizzazione di un impianto da 22mila maiali, già approvato dalla Regione Veneto, progettato dalla Porcellino d’oro. E qui si torna a Schivenoglia, perché la proprietà è la stessa di Biopig.
Impossibile parlare con Luigi Cascone, titolare delle due società. Al telefono con la società di Nogara (Verona), si può solo parlare con uno che dice «mi chiamo Pasquale, il padrone è in ferie, noi non vogliamo pubblicità ». Parla invece Katia Stolfinati, energica sindaca di Schivenoglia, che dice «per me quello di Biopig è un progetto moderno, di ultima generazione». La sindaca è furibonda, «sono stata accusata di far morire di tumore la gente. Dicono che lo spargimento dei liquami finirà nella falda e nei canali, e poi negli orti. Abbiamo fatto due assemblee pubbliche, alla seconda ho dovuto chiamare i carabinieri ». E, aggiunge, «ci hanno anche dato dei “palancai”, cioè accusano me e la mia giunta di prendere le palanche, i soldi, da Biopig».
Insomma, il clima è avvelenato, e non solo per via della puzza. Tutto ruota attorno a una variante al piano regolatore del 2011, che vieta ulteriori insediamenti di suini. Ma per Stolfinati, che ha consultato alcuni avvocati, «quella clausola è illegittima», quindi via libera a Biopig. Sempre che tutti gli enti intervenuti nella questione, Provincia, Arpa, Ats, siano d’accordo.
«Di fatto li allevano per il biogas, è quello il vero business», dice Umberto Macchiella, geometra, anche lui attivista del Gaeta. «A Zerbinate di Bondeno, vicino a Ferrara, c’è il progetto di una porcilaia da 50mila animali, e una centrale da due megawatt, sempre di Cascone. Il maiale non rende. Da vivo rende 1 euro e 65 centesimi al chilo. Poi bisogna macellare, lavorare, vendere, distribuire». Con il biogas invece si guadagna. «Oggi questi allevamenti devono sempre più spesso affrontare problemi di tipo sanitario, ambientale e sociale che sono di difficile soluzione», scrive Riccardo Fortina, del dipartimento di Scienze agrarie dell’Università di Torino, sull’autorevole “Vita in campagna”, la bibbia italiana degli agricoltori. Questi maiali vivono 6 mesi, poi vengono abbattuti. Vivono si fa per dire, stipati nei capannoni, mezzo metro quadro di spazio ciascuno, crescendo fino ai 160 chili, i piccoli schiacciati sulle grate dagli adulti, le code tagliate perché non se le divorino.
«Il maiale è la nostra vita. Qui si fanno braciolate tutta l’estate, e il risotto con la salsiccia sempre. È una risorsa del nostro territorio », dice orgogliosa la sindaca. Ma ora si sta muovendo la Lav, e il Wwf, e si è fatta viva un’emissaria di Michela Brambilla. Persino quelli di Federcaccia e Unione cacciatori sono contrari al maialificio: i liquami avvelenano il suolo, le lepri muoiono, non c’è più divertimento.
Repubblica – 9 luglio 2017