Roberto Mania. «Stiamo ragionando su come rendere più flessibile l’età del pensionamento. Ma serve cautela per gli effetti sui conti pubblici e per non incrinare la credibilità che l’Italia ha costruito proprio grazie alla riforma previdenziale », dice una fonte autorevole del governo. Dunque il capitolo delle pensioni si sta riaprendo ed è in vari modi collegato a quello del Jobs Act. L’obiettivo è duplice: da una parte, correggere le rigidità della riforma Fornero del 2011 sull’età pensionabile per bloccare definitivamente il fenomeno degli esodati; dall’altra consentire ai giovani di subentrare ai più anziani nei posti di lavoro. Perché il mercato del lavoro si sta cristallizzando. Lo certifica l’Istat nell’ultima rilevazione (terzo trimestre del 2014) sugli occupati e disoccupati: «Continua la forte riduzione su base annua delle persone ritirate dal lavoro o non interessate a lavorare (—11,8 per cento, pari a — 429 mila unità) che in quasi nove casi su dieci coinvolge i 55-64enni».
«Anche a motivo delle mancate uscite dall’occupazione generale dall’inasprimento dei requisiti per accedere alla pensione». I lavoratori maturi possono andare in quiescenza più tardi (attualmente con un minimo di 20 anni di versamenti servono 66 anni e 3 mesi per gli uomini e 63 e 9 mesi per le donne) e per i più giovani, tanto più in una fase così lunga di recessione, le opportunità diventano sempre meno.
Il primo segnale della nuova strategia del governo è arrivato con la legge di Stabilità: via le penalizzazioni (cioè il taglio dell’assegno pensionistico) per chi decide di andare in pensione dopo aver versato per 42 anni e un mese i contributi all’Inps senza aver ancora compiuto i 62 anni di età. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha chiesto però prudenza ai ministri competenti. Nessuno osa pronunciare la parola pensioni. Lo stesso premier ieri in un’intervista al Quotidiano nazionale ha negato la possibilità di un nuovo intervento sulla previdenza. Per quanto, questa volta, l’operazione non si tradurrebbe, salvo alcuni casi, in tagli.
Il cantiere si è aperto. Si tratta di ripristinare un minimo di criteri flessibili per andare in pensione, soprattutto a tutela dei lavoratori più anziani che dovessero perdere l’occupazione e che si troverebbero senza stipendio, senza sostegno al reddito dopo un po’ e troppo lontani dalla pensione. Si ragiona su alcune opzioni compatibili con l’impianto generale della legge Fornero senza compromettere cioè i risparmi attesi (in un decennio circa 80 miliardi di euro). Così riprende quota la proposta di concedere ai lavoratori prossimi alla pensione (a 2-3 anni di distanza) che dovessero essere licenziati, un anticipo di una quota dell’assegno pensionistico (pari a circa 700 euro al mese) che verrebbe poi restituita in piccole rate una volta maturati i requisiti per il pensionamento. Ipotesi che nel passato aveva sostenuto anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti e che costerebbe non più di 4-500 milioni l’anno.
Escluso, perché troppo costoso (nell’ordine di 5 miliardi l’anno) l’introduzione di un meccanismo generale di uscita anticipata con penalizzazioni, è invece sul tavolo la proposta (che non dispiacerebbe all’Economia) del consigliere economico di Palazzo Chigi Yoram Gutgeld di consentire — come ha spiegato ieri in un’intervista a Repubblica — di ricalcolare l’assegno pensionistico esclusivamente con il metodo contributivo di quei lavoratori ultracinquantenni rimasti senza lavoro. In cambio della certezza della pensione accetterebbero una decurtazione significativa dell’importo.
Il governo ha anche allo studio un intervento per superare alcune disparità che permangono nel calcolo della pensione tra pubblici dipendenti e privati. La quota retributiva, infatti, della pensione dei dipendenti pubblici (la legge Fornero ha introdotto il contributivo pro-rata) è ancora determinata sulla base dell’ultimo stipendio e non della media, come nel privato, delle retribuzioni degli ultimi cinque anni. E qui, il governo, dovrà vedersela con le resistenze che arrivano dagli alti burocrati ministeriali che sono, appunto, dipendenti della pubblica amministrazione.
C’è poi la parte che riguarda la riforma della governance dell’Inps. Dopo la nomina di Tito Boeri a presidente, il governo punta ad approvare in tempi rapidi (in Parlamento c’è una sostanziale convergenza) la riforma del governo dell’Istituto previdenziale. Verrebbe ripristinato il Consiglio di amministrazione e ridimensionata la composizione del Consiglio di indirizzo e vigilanza dove siedono i rappresentanti delle parti sociali. Oltre a Boeri, nel futuro cda (tre i membri previsti) è candidato a entrare l’economista Mauro Marè, sostenuto dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, mentre la terza poltrona dovrebbe essere destinata a una donna.
Repubblica – 29 dicembre 2014