Per Renzi siamo «quasi al 2 per cento e il tempo sta dimostrando chi aveva ragione». Il tweet dell’ex presidente del Consiglio suona come una rivincita sui «gufi» che avevano previsto catastrofi per l’economia italiana. La ripresa c’è, certifica l’Istat: il Pil del terzo trimestre è cresciuto dello 0,5 per cento, il ritmo di incremento rispetto dodici mesi prima è dell’1,8 per cento, la crescita più alta da sei anni. L’obiettivo del Tesoro di un Pil all’1,5 per cento per quest’anno è centrato, e forse si farà qualcosa di più. «Siamo fuori dal tunnel », aveva annunciato Padoan a Fiuggi già dal luglio scorso.
Così è. Ma l’entusiasmo finisce qui, perché gli occhi sono ormai puntati sul 2018, e la strada sarà in salita. «Non dilapidiamo i risultati », ha commentato prudentemente il premier Gentiloni e nei giorni scorsi lo stesso ministro dell’Economia ha lanciato da Capalbio un deciso appello a «non abbassare la guardia sui conti pubblici».
Purtroppo sono ancora crescita e conti pubblici a rappresentare i due fattori di rischio. Mentre per il 2017 le organizzazioni internazionali si sono uniformate alle stime del governo, per il prossimo anno l’Fmi fa tornare la crescita del Pil indietro all’1,1 per cento e la Commissione europea, nelle previsioni dei giorni scorsi, concede solo fino all’1,3 per cento. Una incognita che si lega con il processo di uscita dal quantitative easing, cioè dalla politica dei tassi bassi della Bce: sebbene sarà un processo lento e lo stesso Mario Draghi abbia assicurato che i tassi rimarranno bassi «ben oltre» la fine del Qe, la convinzione generale è che i rendimenti ormai sono destinati a crescere. La Bank of England lo ha fatto nei giorni scorsi, la Fed lo rifarà nei prossimi mesi. Forse non subito, ma la prospettiva è questa.
Senza contare che dentro questo orizzonte c’è anche il rafforzamento dell’euro: e la ripresa italiana, che è fatta soprattutto di esportazioni, potrebbe soffrirne. Così la riduzione del divario con i partner europei diventerà più difficile: non bisogna dimenticare infatti che se noi esultiamo quest’anno per l’1,5 per cento di Pil, la Germania fa il 2,2 per cento e la Spagna brinderà con un 3,1 per cento.
Fiducia e basso profilo, sembrerebbero consigliare i dati. Ma nessun entusiasmo. Perché sul fronte dei conti pubblici si allinea un altro problema: il falco Jyrki Katainen ieri ha chiesto che gli italiani conoscano la verità. A ben vedere la settimana scorsa Banca d’Italia, Corte dei Conti e Upb hanno già pubblicamente tolto i veli sulle coperture «incerte» della legge di Bilancio legate alla lotta all’evasione e sulla prospettiva di «corto respiro» della strategia sui conti pubblici. In particolare il presidente dell’Upb Giuseppe Pisauro ha messo in chiaro il motivo dei malumori di Bruxelles, non solo sull’aggiustamento strutturale della legge di Bilancio, ma anche sui conti del 2017: ci sarebbero 2-3 miliardi di «buco » dovuti al maggior tiraggio, non prevedibile, da parte delle banche del beneficio dei crediti d’imposta che scatta a fronte di anticipi di tasse, i cosiddetti «deferred tax assets ». Queste maggiori spese impreviste avrebbero vanificato la manovrina dell’aprile scorso e dunque dovremmo trovare rimedio. Non aiuta lo spettacolo dell’assalto alla diligenza, cominciato peraltro non in Parlamento ma nella sosta della manovra a Palazzo Chigi prima di arrivare in Senato: gli articoli sono passati da 70 a 120 e la manovra è salita dai 20 miliardi annunciati fino a quota 22,5 miliardi. Fragilità politica, se non contabile, anche sulle coperture: oltre all’incertezza delle misure di lotta all’evasione, ci sono 2 miliardi che sono solo la rinuncia alla promessa di introdurre una «flat tax» per le imprese.
Con tutta probabilità le somme si tireranno in primavera, quando il vecchio governo forse ancora in carica per l’ordinaria amministrazione dovrà presentare il Def e dovrà impegnarsi, viste le richieste dell’Europa, ad una manovra-bis di 3-4 miliardi per sanare il biennio 2017-2018. Ostacolo non insormontabile, ma non va trascurato il debito, assai sensibile al rischio politico. L’inflazione in Italia resta bassa (in rallentamento dello 0,2 ad ottobre su base mensile) e questo ostacola la riduzione del rapporto con il Pil.
La nave va, ma i rischi non sono finiti. In particolare uno, avvistato da Fedele De Novellis del Ref: l’eventuale rottura della bolla finanziaria, alimentata dalla liquidità degli ultimi anni. L’indice delle borse mondiali è salito quest’anno del 16,5% e listini sono ai massimi: una crisi o il ritorno del rischio politico sulla scena internazionale, potrebbero tornare a far salire la temperatura dell’Italia.
Repubblica – 15 novembre 2017