C’è qualcosa di eroico nella scienza? La Commissione europea, con il programma Marie Curie, dunque nel nome della grande scienziata due volte premio Nobel, ritiene di sì e per popolarizzare il concetto organizza oggi la European Researchers’Night, un evento in cui 250 università di tutta Europa celebrano gli “eroi della scienza” contemporanea: scienziati, ricercatori, medici, che lavorano, spesso oscuramente, verso nuove conquiste dell’umanità.
Tra di loro, uno scienziato italiano, Pietro Roversi, 48enne biologo della Oxford University, specialista di ricerche sulle terapie genetiche, laurea e dottorato in Chimica all’Università di Milano, da vent’anni in Inghilterra fra Cambridge e Oxford. «Veramente preferisco definirmi un fante della scienza, o al massimo, nella circostanza attuale, un eroe per caso », si schernisce lui, mentre prepara il video intervento che farà all’ateneo di Parma, in una serata a cui prenderanno parte anche la fisica Fabiola Gianotti, direttrice del Cern, e l’astronauta Samantha Cristoforetti, prima italiana nello spazio.
Dottor Roversi, come è stato selezionato?
«Un po’ per caso: due anni fa ho scritto con due colleghi, Massimo Moret e Simona Galli, un libro divulgativo sulla cristallografia, la tecnica ai raggi X che consente di vedere come sono fatte le molecole, troppo piccole per essere visualizzate al microscopio, e la professoressa Alessia Bacchi, che ha coordinato quel progetto insieme ad altri in Italia per l’Anno Internazionale della Cristallografia e studia anche lei in questo campo, mi ha proposto all’ateneo di Parma, una delle università partecipanti all’evento. Ma di scienziati italiani che fanno ricerca, in Italia o all’estero, ce ne sono tanti».
Per caso o no, i suoi sono studi importanti: in che consistono?
«Nelle malattie virali, i virus si riproducono usando il nostro corpo, approfittando del meccanismo di maturazione delle proteine che le cellule umane usano per le proprie proteine. Io faccio ricerca su farmaci che interferiscono per bloccare il meccanismo, in modo che le proteine virali non si riproducano e l’infezione virale si fermi».
Quali pazienti potrebbero trarre giovamento da questa tecnica?
«Potenzialmente, pazienti infetti da epatite B e C, influenza, Hiv, Dengue, per citare solo alcuni dei virus che sfruttano le nostre cellule in tal modo».
Vincerà il Nobel, se riuscirà nell’intento?
«Non credo, ma sarebbe un importante passo avanti».
È una nuova frontiera della medicina?
«Lo sviluppo di antivirali ad ampio spettro potrebbe sicuramente aiutare milioni di persone, perché usare come bersaglio una proteina umana di cui i virus hanno bisogno impedisce loro di evadere il farmaco — cosa che purtroppo succede quando un antivirale è diretto contro una proteina virale. In altre parole, nuovi farmaci antivirali ad ampio spettro possono eliminare l’insorgenza della resistenza virale ai farmaci».
È più facile fare ricerca all’estero, in particolare in Gran Bretagna, che in Italia?
«Vedo ricerca di ottima qualità in Italia, anche se immagino fatta con grandi sforzi. Qui c’è una policy migliore: si pensa a come fare una cosa, si trovano i fondi e si fa. In Italia ci sono forse maggiori problemi nella raccolta dei fondi e nel modo in cui sono amministrati. Ma neanche qui è tutto perfetto».
Brexit avrà un impatto sulla ricerca scientifica britannica?
«Dipende dagli accordi che il governo prenderà con la Ue. Oxford e altre università premeranno per dire la loro al tavolo della trattativa e non perdere i finanziamenti europei. Meno cooperazione scientifica sarebbe un danno per tutti».
I cervelli italiani fuggono all’estero, e spesso non riescono a rientrare nel nostro Paese, per il noto fenomeno delle raccomandazioni accademiche.
Lei tornerebbe a fare ricerca in Italia?
«Non lo escludo. Fra un paio d’anni penso che lascerò Oxford e mi piacerebbe lavorare con i colleghi del Cnr a Lecce, con i quali ho già collaborato».
Da bambino voleva fare lo scienziato?
«No, volevo fare il droghiere. Ma poi mi sono innamorato della biologia, attirato dal mistero della vita sulla terra e dalla magnificenza della natura».
Che consiglio darebbe ai ragazzi italiani affascinati dalla scienza?
«Di dedicarsi alle domande senza risposta che trovano affascinanti e seguire i propri interessi ».
Tra i suoi interessi, però, c’è anche la poesia.
«È vero, ne ho sempre scritte e ho pubblicato un paio di libri. Lo scienziato ama l’esattezza e questa è anche una caratteristica della poesia, in cui bisogna usare il linguaggio con accuratezza. Sono due aspetti della medesima passione».
Repubbica – 30 settembre 2016