Bocciata legge della Calabria sui rapporti di lavoro a tempo indeterminato in regime di blocco del turn over. Riemerge così il problema della conciliabilità tra le funzioni speciali del Commissario ad acta e l’attività di legislazione ordinaria dell’amministrazione regionale. LA SENTENZA.
La tematica dei piani di rientro dal disavanzo sanitario si ripropone periodicamente all’attenzione del dibattito giuridico ed istituzionale, stante la sua costante centralità e assoluta rilevanza nel quadro del governo del sistema salute e, in particolare, nell’ambito delle politiche volte al contenimento della spesa sanitaria e al riequilibrio della finanza pubblica.
Il 5 maggio scorso, con la sentenza 110/2014 la Corte costituzionale ha fornito un nuovo contributo chiarificatore circa le cause che più di frequente ostacolano la piena ed efficace realizzazione degli obiettivi concordati fra le parti nel piano di rientro, vale a dire nell’accordo che la Regione in stato di deficit economico-finanziario esorbitante stipula con gli organi centrali – Ministero della salute e Ministero dell’economia e delle finanze – allo scopo di conseguire, attraverso determinate misure, il ripianamento del debito nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza la cui erogazione sia stata compromessa proprio dalla crescita esponenziale del disavanzo.
Al tavolo siedono, dunque, la componente regionale e la componente statale, quest’ultima rappresentata dall’organo deputato alla programmazione ed attuazione delle politiche sanitarie (Ministero della salute) e dall’organo che ha la responsabilità della gestione della spesa sanitaria e dei profili contabilistici (Ministero dell’economia e finanza, che si interfaccia con la Ragioneria generale dello Stato).
L’affiancamento dei Ministeri alla Regione si spiega considerando la finalità di raggiungere, grazie al modulo concertativo che concretizza il principio costituzionale di leale collaborazione, il traguardo dell’equilibrio finanziario del settore sanitario corresponsabilizzando l’attore territoriale che è titolare di istanze e prerogative autonomistiche e l’attore centrale che deve farsi carico di esigenze unitarie e non frazionabili quali il coordinamento della finanza pubblica e la garanzia di apprestamento dei livelli essenziali delle prestazioni sanitarie.
La figura del piano di rientro si situa, in pratica, al crocevia fra diversi interessi e valori da contemperare ed armonizzare. Infatti, non rilevano soltanto l’assetto di riparto delle competenze legislative ed amministrative fra centro e periferia e la tensione ad esso sottesa fra le ragioni della uniformità/indivisibilità e quelle della autonomia/differenziazione: sono da segnalare, in proposito, per la loro attualità nel dibattito politico e massmediologico, le proposte di riforma della Costituzione predisposte dal Governo in carica, che mirano a riservare allo Stato la competenza legislativa esclusiva sulle norme generali per la tutela della salute, sottraendo tale materia alla competenza concorrente Stato/Regioni come configurata nel testo ora vigente della Carta costituzionale.
Vengono in gioco, contestualmente, la garanzia di realizzazione dei LEA, gli obiettivi di risanamento, razionalizzazione e riqualificazione della spesa sanitaria, la capacità dei soggetti chiamati a redigere ed attuare il piano di rientro e il connesso programma operativo, e l’efficienza dell’azione volta al superamento della situazione emergenziale in un contesto a marcata caratterizzazione economico-finanziaria ove occorre salvaguardare l’unità giuridica ed economica del Paese e del suo Servizio sanitario.
La storia normativa dei piani di rientro, le cui radici primordiali risalgono alla L. n. 448/1998 (art. 28), si è sviluppata secondo un percorso che ne ha definito in modo sempre più compiuto e dettagliato i meccanismi applicativi, facendo segnare al tempo stesso un progressivo inasprimento delle conseguenze per il mancato rispetto degli impegni assunti, in termini di mancata attribuzione di finanziamenti erariali, di aumento delle aliquote fiscali, di irrogazione di sanzioni di natura politica a carico dei responsabili dell’inadempimento nei casi di maggiore gravità (D.Lgs. n. 149/2011), etc…
L’atto pattizio è assistito da una forza vincolante particolarmente qualificata, al punto che “le determinazioni in esso previste possono comportare effetti di variazione dei provvedimenti normativi ed amministrativi già adottati dalla medesima Regione in materia di programmazione sanitaria” (art. 1, co. 796, L. n. 296/2006).
L’effettività dello strumento è, in ultima battuta, assicurata dal rimedio della nomina di un commissario straordinario nell’ipotesi in cui il Consiglio dei ministri riscontri l’inadeguatezza del piano presentato o la sua mancata presentazione da parte dell’amministrazione regionale: una nomina a cui l’esecutivo statale provvede in via sostitutiva ex art. 120 Cost., norma che ha formato oggetto di una significativa evoluzione in sede normativa e giurisprudenziale, sintetizzabile in una più diffusa applicazione dello strumento sotto il profilo sia dei suoi presupposti operativi (non più solo l’inerzia o l’omissione, ma anche l’errato o insufficiente adempimento) sia del suo oggetto (che investe ormai, oltre all’attività amministrativa, anche il livello legislativo: per un riscontro v. art. 2, co. 80, L. n. 191/2009, introdotto dal d.l. n. 98/2011).
Il quesito da porsi, a questo punto, riguarda chi può essere nominato “commissario ad acta per la predisposizione, entro i successivi trenta giorni, del piano di rientro e per la sua attuazione per l’intera durata del piano stesso” (così l’art. 2, co. 79 ss., L. n. 191/2009).
La legislazione successiva al d.l. n. 159/2007, che aveva stabilito l’incompatibilità della nomina a commissario con l’affidamento o la prosecuzione di qualsiasi incarico istituzionale presso la regione soggetta a commissariamento, consente la coincidenza fra la persona del commissario sostituto e il presidente della regione commissariata.
E quando la scelta cade sul presidente della giunta regionale (che è anche membro del consiglio regionale), la ratio di favorire il raccordo e coordinamento dell’azione prevale sulle esigenze della terzietà/alterità e della soluzione di continuità fra il ruolo di amministrazione attiva e la funzione commissariale.
In tali casi, la prassi ha evidenziato una palese e ripetuta violazione di principi costituzionali che ha indotto la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità di una serie di disposizioni di legge regionale le quali, in sostanza, vanificano il principio in base al quale pacta sunt servanda: quel principio che rende il vincolo nascente dall’accordo così cogente e inderogabile da condizionare l’intero spettro dell’azione, amministrativa e legislativa, della Regione successiva alla stipula, come dimostrano fra l’altro i poteri di autorizzazione preventiva, di verifica e monitoraggio che il “contraente” statale esercita in qualità di “vigilante” a garanzia della corretta esecuzione degli obblighi assunti.
In poco più di quattro anni, a partire dalla sentenza n. 2/2010, numerosi sono stati invero gli interventi della Corte costituzionale volti a neutralizzare i tentativi di elusione degli obiettivi convenuti nei piani di rientro e di conseguente svuotamento del ruolo del commissario: dalla istituzione di nuove strutture variamente denominate (distretti socio-sanitari montani, autorità per il sistema sanitario, centro regionale sangue), alla modifica unilaterale del sistema di finanziamento delle prestazioni; dall’aumento della quantità e tipologia dei servizi e prestazioni poste a carico del fondo sanitario regionale all’incremento, o mancata riduzione, dei posti letto; fino all’attribuzione, o al mantenimento, a favore della giunta di poteri – come il controllo sugli atti dei direttori generali delle aziende sanitarie ed ospedaliere e la loro sostituzione per inadempienze relative alla gestione del bilancio – capaci di confliggere con l’espletamento del mandato commissariale.
Una delle tecniche elusive più ricorrenti si collega alla spesa per il personale e comprende misure di vario genere, che spaziano dalla proroga generalizzata dei contratti della dirigenza apicale delle aziende alla stabilizzazione del personale precario, disposta dal legislatore della regione commissariata senza tener conto del suo impatto sull’osservanza del piano di rientro e senza alcun coinvolgimento del commissario.
La riduzione della spesa per il personale è, per l’appunto, al centro della sentenza n. 110/2014, che prende in esame la fattispecie della stabilizzazione del personale non dirigenziale in servizio a tempo determinato presso le aziende sanitarie ed ospedaliere della Regione Calabria.
Ebbene, ha evidenziato la Consulta, un siffatto provvedimento legislativo regionale è suscettibile di compromettere i vincoli posti dal piano di rientro e finisce con il menomare le attribuzioni e il mandato del commissario ad acta, nella misura in cui produce una frizione, e perciò una indebita interferenza rilevante anche se solo potenziale, tra la legge regionale impugnata e l’attività e le funzioni del commissario stesso.
Si legge, specificatamente, nella sentenza che il blocco automatico del turnover non ammette zone franche – nemmeno se riguardanti il personale precario per effetto della scadenza dei contratti di lavoro a tempo determinato – all’infuori delle deroghe tassativamente stabilite dalla legge statale o concordate nell’accordo fra le parti.
In definitiva, la “esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta necessità di contenere i disavanzi del settore sanitario”, che costituisce il tratto identitario fondamentale, il DNA dei piani di rientro, fa del contenuto dell’accordo un limite invalicabile ed indisponibile in via unilaterale dalle parti dell’accordo stesso, pena il deterioramento degli equilibri di bilancio, finanziari e contabili e il sacrificio della tenuta stessa dell’unità e della coesione economica e sociale della nostra Repubblica.
Guerino Fares
Università Roma Tre, Docente di Diritto sanitario e farmaceutico
Quotidiano sanità – 16 maggio 2014