Corriere del Veneto. Avrebbero inquinato sapendo di farlo, senza adottare contromisure nè avvisare gli enti preposti, nonostante «l’alterazione anche visiva del sottosuolo» e il continuo «sforamento dei valori tollerati». Tanto da chiedere ai consulenti ai quali commissionavano di volta in volta le verifiche ambientali di «rivedere e ridimensionare la portata delle affermazioni». E al punto da vendere la Miteni spa — nel 2009, tra le multinazionali Mitsubishi e Icig — al costo di un euro, a fronte di un valore di 15 milioni. «Un accordo davvero singolare», secondo la Procura di Vicenza, spia di «una reciproca consapevolezza» che risulterebbe anche da documenti acquisiti nella perquisizione dello studio legale milanese che curò la compravendita.
Questo mentre l’interramento di rifiuti e scarti di lavorazione, le carenti misure adottate per smaltire i residui e la limitata tenuta degli impianti estendevano la contaminazione di tutta l’area industriale alle acque sotterranee e superficiali. Avvelenando la falda di 21 Comuni a cavallo tra le province di Vicenza, Verona e Padova e così migliaia di cittadini, con conseguenze sulla salute come l’aumento del livello di colesterolo (accertato nella superconsulenza voluta dalla Procura). E’ il quadro accusatorio tracciato dai pm Hans Roderich Blattner e Barbara De Munari, che dopo due anni di lavoro hanno chiuso le indagini preliminari sul troncone principale dell’inchiesta sull’inquinamento da Pfas e Pfoa addebitato all’azienda chimica Miteni di Trissino.
Ma c’è anche un secondo fascicolo, già con indagati, per l’inquinamento da GenX, C6 e C4, dal 2013 ad oggi. «E’ ancora in fase di indagine preliminare — precisa il procuratore capo Antonino Cappelleri — e potrebbe essere riunito al primo fascicolo solo in dibattimento. In questo secondo caso si procede con l’ipotesi di reato colposo: sembra che l’inquinamento sia derivato da perdite accidentali. Certo suscita non poche perplessità che Miteni, già al centro di una così clamorosa indagine, sia stata autorizzata a trattare quel tipo di prodotti».
Il lavoro concluso riguarda invece il periodo precedente, fino al 23 luglio 2013, data in cui Miteni smise di produrre composti a catena lunga come i Pfas e si autodenunciò, iniziando a cooperare per la bonifica. Si procede per i reati, per l’accusa dolosi, di avvelenamento delle acque e disastro innominato in concorso. Gli indagati a vario titolo (e per tempi diversi) sono 13. Quattro giapponesi ex manager di Mitsubishi Corporation, proprietaria di Miteni spa fino al 5 febbraio 2009 (Maki Hosoda, Kenji Ito, Naoyuki Kimura e Yuji Suetsune, già presidente del cda); 4 manager di ICIG, International Chemical Investors, la tedesco-lussemburghese subentrata fino al fallimento dichiarato il 9 novembre scorso («avvisati» il presidente del gruppo Icig Italia, già ad di Miteni, Anthony Brian Mc Glynn, l’ex ad Hendrik Patrick Schnitzer, Hannes Georg Achim Riemann e Nicolass Alexander Smit); e cinque manager e dipendenti Miteni con delega in materia di ambiente e sicurezza. Cioè: l’ex ad e direttore operativo Luigi Guarracino (assente invece l’ultimo ad Antonio Nardone); l’ex direttore tecnico, il padovano Mario Fabris, il veneziano Mauro Cognolato e i vicentini Davide Drusian e Mario Mistrorigo. «Esaminati gli atti, i miei assistiti depositeranno una memoria difensiva ed eventualmente chiederanno di essere sentiti con l’intento di ottenere l’archiviazione del procedimento — dice il difensore Novelio Furin —. Avevano deleghe di funzioni con un potere di spesa limitatissimo e con compiti meramente esecutivi».
Per l’accusa l’inquinamento è datato: «L’ipotesi è che i fatti risalgano fino al 1960 — dichiara Cappelleri —. La chiusura indagini riguarda l’inquinamento da Pfas, mentre il più recente da GenX è materia di un’indagine parallela ancora in corso». E per quelle «perdite accidentali dagli impianti» si contesterà il disastro ambientale colposo.