Pfas nella falda, per il ministero della Salute va limitato l’uso dell’acqua dei pozzi per l’agricoltura e l’allevamento. L’allarme per la diffusione dei composti perfluoroalchilici, e la conseguente raccomandazione di ridurre l’utilizzo idrico nelle aree del Vicentino, del Veronese e del Padovano interessate dall’inquinamento, sono stati rilanciati ieri da Roma, con la replica a un’interrogazione della deputata Daniela Sbrollini (Pd).
Dall’Usl 8 Berica confermano che i controlli sono tuttora in corso, dopo che nel 2016 sono state controllate 369 aziende agricole e 16 pozzi sono stati trovati «non conformi», mentre gli agricoltori invitano ad «evitare gli allarmismi: se il ministero vuole che si usi meno acqua deve dire in base a quali dati lo chiede», avverte Martino Cerantola, presidente veneto di Coldiretti.
L’inquinamento in falda da Pfas riguarda una fascia di pianura fra la Bassa Veronese, il Vicentino e la Bassa Padovana, territori interessati da un fenomeno per il quale l’Arpav ha indicato come principale responsabile l’industria Miteni di Trissino. Il ministero guidato da Beatrice Lorenzin, assieme all’Istituto superiore di sanità, già un anno fa aveva raccomandato «pratiche agronomiche e zootecniche» volte a «ridurre il trasferimento della contaminazione». La dem Sbrollini, nei giorni scorsi, aveva chiesto al governo ulteriori sforzi, anche alla luce della relazione della commissione tecnica regionale Pfas dell’ottobre scorso, che aveva evidenziato gli effetti sulle condizioni sanitarie delle donne incinte e dei neonati nella zona inquinata.
Così sono arrivate l’interrogazione della parlamentare e la risposta del ministero, riferita alla commissione Sanità della Camera. Nella sua nota il dicastero premette che in tema di Pfas mancano «valori di riferimento collegati a un rischio per la salute umana» e assicura che la questione è sotto la lente di Oms e Commissione europea. Ma la puntualizzazione seguente è netta: «Per quanto riguarda le possibili infiltrazioni nella falda, tutta l’acqua generata e utilizzabile in loco deve essere trattata, o comunque rivalutata, come fonte primaria di acqua potabile», tanto che «il ministero della Salute, assieme alla Regione Veneto, ha raccomandato fortemente di limitare l’utilizzo idrico nelle zone interessate dall’inquinamento, ponendo particolare attenzione sul rischio afferente alla matrice agricolo-alimentare».
Conferma infatti Gianpaolo Bottacin, assessore regionale all’Ambiente, che condivide la competenza in materia insieme ai colleghi Luca Coletto alla Sanità e Giuseppe Pan all’Agricoltura: «Si tratta della raccomandazione formulata ancora nei mesi scorsi, quand’era stata demandata ai territori la facoltà di ordinare la chiusura dei pozzi che emungono l’acqua dalla falda e che sono ritenuti a rischio». I controlli delle aziende sanitarie peraltro continuano, come spiega Stefano Ferrarin, responsabile del Servizio igiene alimenti dell’Usl 8: «Non ci sono pozzi chiusi ma 16 sono stati trovati “non conformi”». Lì la soglia di Pfas è superiore ai 500 nanogrammi per litro: alle aziende è stato dato un mese di tempo per «installare filtri ai carboni attivi, scavare più in profondità o utilizzare acqua dell’acquedotto». Nel frattempo è scattato lo screening sulla presenza di Pfas in frutta, ortaggi carni e pesci: «Verranno raccolti in tutto 611 campioni di animali e 793 di vegetali, costituiremo un tavolo con tutte le realtà coinvolte per avere report mensili e concludere per fine giugno», aggiunge la direttrice sanitaria Simona Bellometti.
Le ripercussioni sulle aziende preoccupano però i sindaci dell’area, come Roberto Castiglion di Sarego (M5S): «Mi auguro che ci sia attenzione e tutela per queste imprese, ingiustamente colpite dal problema». Nel frattempo Coldiretti invita le istituzioni a parlare solo per dati certi: «Se si vuole che gli agricoltori non usino più l’acqua dei pozzi, deve essere dato loro modo di produrre in un’altra maniera», è l’altolà di Cerantola.
Andrea Alba – Il Corriere del Veneto – 3 febbraio 2017