Michela Nicolussi Moro. Ore 12.50: Padova, in Azienda Zero il direttore generale della Sanità, Domenico Mantoan, sta illustrando con gli esperti i primi risultati della plasmaferesi — la tecnica usata per rimuovere i Pfas dal sangue — su 106 residenti dell’area rossa (i 21 Comuni tra Vicenza, Verona e Padova contaminati dalle sostanze industriali sversate nell’acqua dagli anni ‘70 al 2013, quando il Cnr diede l’allarme). Alla stessa ora a Venezia i Nas, mandati dal dicastero della Salute, si presentano a Palazzo Balbi, sede della giunta regionale, per sequestrare la documentazione relativa alla procedura in oggetto, 48 ore prima al centro dell’ennesimo scontro tra il governo veneto e il ministro Beatrice Lorenzin. «Siamo sorpresi — è la reazione a caldo di Mantoan — tutti i passaggi della vicenda Pfas vengono via via comunicati a popolazione, ministero, Istituto superiore di Sanità e Procura di Vicenza e pubblicati sul sito della Regione. Tutti sapevano, non occorreva scomodare il Nas, bastava che il ministero lo chiedesse e avremmo inviato il materiale». Poi l’annuncio a sorpresa: «A questo punto sospendiamo la plasmaferesi in attesa che la ministra ci mandi la documentazione scientifica in materia. Se dimostra che fa male, basta, non la adotteremo più. Ma allora dovrà dirci quali altre misure adottare per disintossicare i cittadini. E’ la nostra priorità».
La miccia l’aveva accesa mercoledì la deputata del Pd Giulia Narduolo, che al question time aveva chiesto alla Lorenzin chiarimenti sull’efficacia della plasmaferesi. «Nè il ministero nè l’Istituto superiore di Sanità (Iss) sono mai stati formalmente interessati dalla Regione Veneto sull’utilizzo di questa terapia — la risposta del ministro —. Non risultano evidenze scientifiche sulla possibilità di rimuovere i Pfas con tale trattamento, il ricorso al quale è anzi fortemente sconsigliato proprio in quelle situazioni particolari e rare di inquinamento ambientale come quella esistente in Veneto. E’ una terapia fortemente invasiva, la Regione Veneto avrebbe dovuto procedere ad una preventiva sperimentazione, in particolare nei confronti di bambini e adolescenti. Ho già chiesto dettagliate informazioni per valutare iniziative di tutela della salute dei cittadini veneti». Detto fatto. Tra l’altro il mese scorso Walter Ricciardi, presidente dell’Iss, aveva avvertito: «La plasmaferesi è un intervento invasivo per rimuovere sostanze tossiche dall’organismo. Al momento non ha evidenze scientifiche, sottoporvi le persone espone anche a rischi medico-legali».
Ma cos’è la plasmaferesi? «E’ una procedura che ci serve ad abbassare più velocemente il livello di Pfoa e Pfos nel sangue dei soggetti contaminati — spiega la dottoressa Francesca Russo, a capo del Dipartimento regionale di Prevenzione —. Queste sostanze hanno un tempo di dimezzamento fisiologico di 5 anni e oggi non sono cancerogene, ma non sappiamo quali conseguenze possano avere sull’organismo dopo 20-25 anni. Ecco perché, dopo aver iniziato il biomonitoraggio su 85mila residenti dell’area rossa tra 14 e 65 anni abbiamo deciso, previo parere di un Comitato di clinici e il benestare del Comitato regionale di bioetica, di proporre tale soluzione a soggetti con oltre 200 nanogrammi di Pfas per litro di sangue, contro il valore normale di 8 nanogrammi. L’adesione alla plasmaferesi è volontaria». Si tratta di sottrarre delle piccole quantità di plasma per rimuovere i Pfas, che si legano all’albumina, una proteina. Si esegue nei Centri trasfusionali degli ospedali di Vicenza e Padova. Nel primo, diretto dalla dottoressa Alberta Alghisi, sono trattati maggiorenni con livelli tra 150 e 200 nanogrammi per litro e minori con valori tra 100 e 200. Da settembre sono state seguite 70 persone; 21 hanno 17 anni, 12 ne hanno 16 e 9 sono quindicenni. Dopo quattro sedute si è evidenziato un calo di Pfas pari al 35%. A Padova invece si effettua lo scambio plasmatico, procedura più complessa che consiste nella rimozione di elevati volumi di plasma, sostituiti da equivalente quantità di albumina «pulita» nei soggetti con oltre 200 nanogrammi di Pfas. Nei 16 pazienti trattati si evidenzia un calo del 68%. Percentuale dopo 30 giorni scesa al 56%, segno che i Pfas non si possono azzerare, perché impregnano anche i tessuti.
Il Corriere del Veneto – 18 dicembre 2017