Il Piano Nazionale di Sorveglianza è attivo dal 2018, gran parte dell’Europa è già stata colpita e i ricercatori un pò se l’aspettavano. Ma il cinghiale trovato morto a Ovada (Alessandria) lo scorso 5 gennaio, ha fatto scattare l’allerta in tutta la filiera zootecnica italiana. Che conta nove milioni di maiali ed è la settima in Europa per commercio di carne e derivati. Già provata dall’abbattimento di 13 milioni di polli, tacchini e altri volatili per via dell’influenza aviaria. Con il “caso uno” è iniziata dunque in Italia la seconda ondata di peste suina africana, dopo quella del 1978 che ha colpito la Sardegna. Un virus rapidamente contagioso e letale nel 90% dei casi, che stavolta non incontrerà il mare a frenare la sua corsa. E di casi sospetti sul “continente” ce ne sono già altri due: uno a Franconalto, sempre nell’Alessandrino, e un altro a Isola del Cantone, in provincia di Genova.
Il Centro di Referenza Nazionale per le Pesti Suine dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche darà il responso ufficiale nei prossimi giorni ma intanto “non c’è pericolo per l’uomo – fa sapere a Today Francesco Feliziani, medico veterinario responsabile del laboratorio di riferimento nazionale per le pesti suine – perché questo virus si trasmette solo tra suidi, ovvero maiali e cinghiali. Non esiste cura e non esiste vaccino, anche se abbiamo alcuni progetti di ricerca dedicati a quello. L’unica arma che possiamo utilizzare è la biosicurezza, sia negli allevamenti che allo stato selvatico. Le aziende hanno ben presente cosa possa significare dover abbattere tutti i capi in produzione nel caso di un solo individuo positivo e per questo, sono generalmente molto scrupolose nelle misure preventive”. Cambio di abbigliamento per entrare o uscire dall’allevamento, no ai contatti anche con cinghiali o maiali di altri allevamenti e notifica immediata di sintomi o episodi di mortalità anomala. Tutte misure di sicurezza che possono salvare il reddito degli imprenditori ma che hanno tutt’altra efficacia quando lo scenario si sposta in ambiente selvatico. Dove prolifera una stima incontenibile di quasi due milioni e mezzo di cinghiali, ormai ospiti abituali di rifiuti incustoditi fin dentro le città metropolitane.
“Se la peste suina dovesse arrivare in Appennino, sarebbe un disastro”
“Contenere la diffusione fuori dalle aziende è tutt’altra faccenda. Se dalle Alpi Marittime la peste suina dovesse arrivare lungo l’Appennino, sarebbe un disastro perché i cinghiali sono in continuità diretta”. Intanto, l’area infetta a cavallo tra Piemonte e Liguria è stata individuata e coinvolge circa 60 comuni, ai quali è stato chiesto di sospendere immediatamente la caccia e le attività in bosco. “Sia perché le battute con il metodo della “braccata” disperdono i gruppi e aumentano il rischio di diffusione, sia perché l’uomo è il primo veicolo di contagio attraverso materiali e superfici”. Tradotto: anche le scarpe possono portare in natura l’infezione, come gli oggetti o le auto. Ma il vero pericolo è nel cibo lasciato incustodito. “Il gran numero di esemplari che ospitiamo sul territorio italiano si sposta soprattutto in funzione delle risorse alimentari più accessibili e i rifiuti urbani possono rappresentare un pericoloso focolaio d’infezione. Per questo, soprattutto nelle aree rurali, è fondamentale non gettare scarti all’esterno ma ancora più urgente è aiutarci nel monitoraggio sul territorio”. Da qui, l’appello di Feliziani: “Che sia in allevamento o fuori, è fondamentale segnalare al servizio veterinario regionale ogni caso sospetto di animali vivi con febbre o emorragie, oppure il ritrovamento di carcasse. Solo così è possibile una diagnosi rapida tentare di contenere la trasmissione”. Linee guida che in questo periodo, ci sembrano familiari.
Today – 9 gennaio 2022