di Corrado Augias, Repubblica. La storia dei vaccini racchiude una delle più straordinarie avventure dell’ingegno umano, vale a dire la lotta, e la vittoria, contro un nemico invisibile, capriccioso, mortale. Un conto era affrontare dei nemici in campo aperto (quando ancora questo avveniva), che erano là, dal lato opposto della pianura, se ne poteva, già a occhio, valutare la potenzialità offensiva. Diverso affrontare un nemico invisibile, venuto da chissà dove, che colpisce a caso, ora risparmiando una comunità ora investendone un’altra per sterminarla. È comprensibile che in tempi remoti un male di questo tipo venisse attribuito alla volontà degli dèi di vendicare un’offesa, punire una colpa. Del resto, c’è ancora chi, nel XXI secolo, tira in ballo la divinità o ne invoca la protezione.
Edipo s’aggira per le vie di Tebe colpite dalla peste interrogandosi su quale sia l’affronto fatto al Dio. Scoprirà troppo tardi d’essere lui l’offensore per aver ucciso inconsapevolmente suo padre ed essersi giaciuto con una donna che era sua madre. Un mito esaminato da più punti di vista, in primis quello psicanalitico, ma che, inserito nella storia delle pestilenze, rivela perché il loro “mistero” abbia reso così difficile affrontarle.
I vaccini sono stati lo strumento privilegiato della battaglia, quando leggo di povere anime tremule che rifiutano i vaccini, ho la conferma che l’era elettronica non ha cancellato le superstizioni — si è limitata ad aggiornarle.
Nella seconda metà del Settecento, il medico inglese Edward Jenner che lavorava non lontano da Bristol, sentì una giovane contadina vantarsi con un’amica di essere sfuggita al rischio d’avere il volto butterato dal vaiolo dato che aveva già avuto il vaiolo vaccino. Questa particolare immunità nelle campagne non era un segreto, in Inghilterra e fuori. Jenner però, giovane curioso, volle andare in fondo organizzando un esperimento crudele, rischioso, oggi impensabile. Prese un bambino di otto anni, James Phipps, facendone la sua cavia. Gli praticò due graffi superficiali sul braccio, per poi inoculare nelle scalfitture un fluido prelevato dalle pustole vaiolose presenti nella mammella d’una vacca. Per studiare gli effetti dell’esperimento, espose il piccolo James a casi di vaiolo umano. Non successe niente, il povero James era diventato immune.
A partire dal 1979 (fonte: Oms) il vaiolo è scomparso dal nostro pianeta, mentre si calcola che nel secolo della Rivoluzione francese e dei diritti dell’uomo abbia provocato la morte di quasi il 10 per cento della popolazione mondiale. Del resto, le persone d’una certa età (me compreso) conservano sull’omero il bollino della vaccinazione antivaiolosa che ha continuato a praticarsi fin quasi agli anni Cinquanta. Leggo nel libro “Vaccini dell’era global” di Rino Rappuoli e Lisa Vozza (Zanichelli ed.), che uscirono indenni dal vaiolo Mozart e Beethoven, Washington e Lincoln; mentre Stalin nascondeva la pelle butterata con un po’ di belletto e facendo opportunamente sfumare le foto.
La scoperta del dottor Jenner sortì dalla volontà e dalla fortuna, però è antica l’idea che una piccola quantità di male possa proteggere da un male più grande. In Cina già nel VI secolo a.C. si praticava una specie di rudimentale vaccinazione ai membri della famiglia imperiale soffiando nel naso degli illustri pazienti minuscoli frammenti di croste infette dopo averle essiccate per depotenziare il virus.
Ecco la parola chiave per capire il funzionamento di un vaccino: depotenziamento del virus. Uno dei primi a farne esperienza è stato alla fine dell’Ottocento il microbiologo francese Louis Pasteur (breve digressione: chiedere a un bambino se sa perché il latte viene messo in vendita con la scritta “pastorizzato”). Studiando i batteri del colera dei polli, Pasteur si accorse che quelli lasciati in un flacone durante la pausa estiva si erano prima riprodotti freneticamente poi, rimasti senza nutrimento, s’erano indeboliti, cioè “attenuati”. Inoculati nei polli vennero facilmente abbattuti dagli anticorpi dell’organismo. Era una delle più convincenti applicazioni del vaccino.
In questa avventurosa guerra uomini contro virus, confesso che mi ha molto colpito la storia degli untori di manzoniana memoria per la peste del ‘600 portata anche a Milano dai lanzichenecchi. Attribuire la causa della pestilenza a uomini malvagi o interessati che nottetempo andavano ungendo di veleno le cantonate, è chiaramente una sciocchezza. Però in quella assurda spiegazione si nasconde una prima intuizione laica. Il male non viene più visto come un portato della collera divina, bensì della malvagità o stupidità umane. Portare la peste dal cielo alla terra era in qualche modo una premessa per immaginare di poterla curare, una volta trovati gli strumenti. Vennero anche questi, con la scoperta del mondo microscopico. Tra i primi esperimenti fatti con un paio di lenti, concava e convessa, ficcate in un tubo metallico, e un vero microscopio in grado di individuare i virus dovettero passare molti anni, importante però era padroneggiare il principio. Anche i telefonini di 40 anni fa erano grossi, ingombranti, assai meno potenti delle attuali sottilette che tutti abbiamo in tasca. Quei rozzi tubi d’ottone rivelarono un mondo di cui nessuno aveva mai sospettato l’esistenza. Un topos della letteratura scientifica di fine Seicento divenne una goccia d’aceto che sotto la lente microscopica si rivelava abitata da minuscole anguille in movimento. Così una goccia di sangue, di sperma, l’occhio d’una mosca, un po’ d’acqua stagnante. Galileo aveva puntato il suo cannocchiale sui satelliti, una schiera di osservatori, moltissimi gli italiani, invertirono cammino, prospettiva, forma mentis passando dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Scoprirono i virus, impararono ad analizzarli, a batterli con i vaccini. Oggi sono la nostra speranza.