La filiera del pesce sta vivendo in questi mesi una doppia distorsione, a monte e a valle, per cui gli armatori non sono remunerati abbastanza a fronte dell’aumento dei costi, mentre i consumatori finali si trovano esposti a rincari superiori a quelli dell’inflazione. Nelle principali marinerie italiane da molti giorni ormai i pescherecci sono in sciopero: protestano contro il caro-gasolio, che ha reso antieconomico l’uscire in mare. Nel 2020 un’imbarcazione spendeva in media 131 euro al giorno per l’acquisto di carburante: per il 2022, il costo del carburante medio per battello risulta quasi raddoppiato. In particolare, si stima che per la pesca a strascico la spesa media giornaliera quest’anno sfiorerà i 600 euro, contro una media di poco inferiore ai 400 euro negli anni 2019-2020.
Per questo alla marineria di Termoli gli armatori in protesta hanno incontrato la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, e le hanno chiesto di farsi portavoce presso il Governo affinché si possa trovare a breve una soluzione per far diminuire il prezzo del gasolio alla pesca fino a 50 centesimi al litro. Una cifra, scrivono gli armatori, «che consentirebbe alle imprese di pesca la libertà di lavorare per loro e per i loro equipaggi».
Secondo Fedagripesca, il fermo dei pescherecci potrebbe far scarseggiare sui mercati i prodotti di stagione come le acciughe e le sardine, ma anche i crostacei, i naselli, il pesce spada, le sogliole, le seppie e le spigole. La speculazione in compenso non manca: di quel 30% di aumento dei prezzi al consumo registrato da marzo, segnala Fedagripesca, ben poco è andato nelle tasche dei pescatori, che non riescono a scaricare sul costo del pescato i rincari del carburante. Eppure, in termini di fatturato, l’incidenza del costo del gasolio sul valore della produzione sfiora il 30%, con punte di quasi il 45% per le operazioni più energivore come la pesca a strascico.
Per arrivare dal mare alla tavola il pesce italiano compie solo due o tre passaggi in cui il prezzo aumenta da un +20% fino anche a un +50%, a seconda delle specie ittiche e al periodo dell’anno. Per quanto riguarda la ristorazione, il valore del prodotto viene determinato dallo chef e in questo caso il prezzo, rispetto all’origine, può tranquillamente triplicare. Negli ultimi dieci anni però, e a prescindere dal caro-gasolio di questi mesi, i guadagni provenienti dagli sbarchi sono diminuiti di oltre il 30%, mentre il loro volume è sceso del 16%. «Il prezzo del prodotto – spiega Paolo Tiozzo, vicepresidente di Fedagripesca-Confcooperative – nasce dalla classica dinamica di incontro fra domanda e offerta, tuttavia con la particolarità che si tratta di prodotto altamente deperibile per cui chi pesca ha necessità di venderlo subito, e questo può condizionare il prezzo».
Anche la flotta da pesca nazionale si è ridotta, scendendo alle circa 12mila imbarcazioni di oggi, su cui lavorano poco meno di 24mila pescatori, di cui 19mila a tempo pieno. I piccoli sono molti, rappresentano 8.300 battelli, circa il 70% di tutta la flotta nazionale. E sono proprio loro, quelli che stanno facendo più difficoltà a gestire l’aumento dei costi di produzione.