L’importo è complessivo, di cui 60 milioni per la dirigenza medica e 140 milioni per il personale del comparto sanità, con un aumento del 122% rispetto al 2021. È solo il caso di ricordare che, a oggi, nessun lavoratore ha ancora percepito nulla e, forse, in qualche azienda sanitaria con le buste paga di novembre e dicembre è stata messa in pagamento l’anticipazione di 40 euro prevista dall’art. 107, comma 4 del Ccnl appena firmato. Il fatto sconcertante è che l’aumento ha decorrenza dal 1° gennaio 2024 e tecnicamente non dovrebbe nemmeno essere contenuto in questa legge in base al principio contabile di competenza. Lo stesso ministro della Salute si era impegnato per un emendamento che anticipasse l’incremento al 1° gennaio 2023 ma – come sappiamo – la proposta è stata bocciata, con la conseguenza che in Gazzetta Ufficiale troviamo la legge 197/2022 il cui comma 526 prevede, riguardo alla decorrenza dell’aumento, la data originaria, cioè 1° gennaio 2024: nessun commento riguardo alla circostanza che si cerca di arginare la fuga dai Pronto soccorso con una indennità che credibilmente arriverà tra un anno e mezzo.
Nella legge di Bilancio 2023 non troviamo in pratica altro. Solo il comma 528 prevede una proroga dei termini per la stabilizzazione ex comma 268, lettera b), della legge n. 234/2021, a favore del personale del ruolo sanitario e del ruolo sociosanitario, anche qualora non più in servizio, prorogando al 31 dicembre 2024 l’avvio delle procedure e al 31 dicembre 2023 la maturazione dei requisiti. A prescindere dalla aleatorietà della disposizione c’è, da chiedersi quanti dei destinatari della norma nel frattempo siano già andati o andranno a lavorare nelle cooperative.
Da parte sua la contrattazione collettiva non è riuscita a mettere concretamente in busta paga lo stanziamento del comma 293 della legge di Bilancio 2022 che, per il comparto, era di 63 milioni. La soluzione adottata dalle parti negoziali ha qualcosa di assurdo, qualunque sia stata la motivazione che ha suggerito di prevedere, per ora, solo un acconto. La causa più banale potrebbe essere che non si conosceva ancora il numero esatto dei destinatari ma anche che tale numero non si riesce a perimetrare perché “non si sa” chi sono i destinatari. In entrambe le ipotesi la soluzione è sconcertante. Se in sei mesi le Regioni non sono riuscite a rilevare e comunicare all’Aran tale numero, è ovviamente singolare, ma se invece la questione versa su quali sono i profili e le condizioni oggettive per avere diritto alla indennità, allora forse è anche peggio, perché si tratterebbe di una sorta di assalto alla diligenza che i sindacati non sono riusciti a governare. La stessa Agenzia negoziale ha ammesso che una procedura di ripartizione e di individuazione dei relativi valori economici così irrituale si è resa necessaria a causa di dati parziali e non omogenei relativi al personale assegnato ai servizi di pronto soccorso nelle diverse aziende e della diversa organizzazione di essi in ambito regionale. Il vero nodo da sciogliere credo sia proprio questo, anche perché la dizione “servizi di pronto soccorso” è molto ampia e lo stesso contratto specifica che spetta al “personale di tutte le aree e di tutti i ruoli”, compresi senza dubbio anche gli amministrativi. A proposito della Tabella G che ripartisce lo stanziamento tra le Regioni, in essa si rileva la mancanza delle Province autonome di Trento e Bolzano e, soprattutto, che gli importi indicati sono al netto degli oneri riflessi; difatti lo stanziamento di 63 mln della legge di Bilancio 2022 è ridotto a 44.450.602 euro, con una valutazione dell’impatto degli oneri pari quasi al 30%. A mia memoria, non ricordo un altro emolumento che il Ccnl abbia tabellato al netto degli oneri riflessi e, sulla questione, qualche domanda si pone. Le aziende dovranno attribuire gli importi che deriveranno dalla ripartizione regionale senza imporre contributi previdenziali e Irap? E chi li verserà allora? E, infine, dove sono finiti i 18 mln residuati dalla tabella G?
Sull’agonia dei Pronto soccorso le Regioni non sanno più cosa altro fare e adottano decisioni estreme. È il caso della legge regionale Emilia Romagna 27 dicembre 2022, n. 23 con la quale all’art. 20, “al fine di ridurre l’utilizzo delle esternalizzazioni”, si autorizzano le aziende sanitarie a utilizzare le prestazioni aggiuntive portandone l’importo a 100 euro e ciò “in deroga alla contrattazione”, decisione che contrasta decisamente con l’art. 45 del Dlgs 165/2001. Tale incremento era già stato deciso dalla Regione Veneto mediante un Accordo sindacale. Inoltre, nei Pronto soccorso emiliani fino al 31 dicembre 2024 i laureati in medicina e chirurgia abilitati, anche durante la loro iscrizione ai corsi di specializzazione, possono prestare, al di fuori dell’orario dedicato alla formazione specialistica e fermo restando l’assolvimento degli obblighi formativi, attività di supporto presso i servizi di emergenza-urgenza ospedalieri. Questa deroga al principio dell’incompatibilità previsto per gli specializzandi era già stata oggetto di un emendamento presentato dalle Regioni al Ddl Bilancio 2023 che non è stato approvato (emendamento n. 64 del documento delle Regioni). Se una Regione di assoluta avanguardia nell’assistenza sanitaria arriva ad adottare una legge che potrebbe essere impugnata dal Governo per ben due punti a forte rischio di incostituzionalità, vuol dire che siamo probabilmente al capolinea degli interventi ponte o di natura congiunturali. È ormai irrinunciabile un completo cambiamento di rotta riguardo al trattamento normo-economico del personale della Sanità per tentare di far tornare la professione medica e quella infermieristica a essere attrattive. I Ccnl devono essere rinnovati in tempo reale e non dopo più di quattro anni; ricordo che lo stesso contratto collettivo del comparto del 2 novembre 2022 è scaduto da più di dodici mesi. Lo Stato e le Regioni devono capire che è necessario un investimento serio, strutturale e definitivo sul capitale umano delle aziende sanitarie proprio perché costituisce la loro principale e indispensabile risorsa. Altro che tetti al costo del personale: norme come l’art. 2, comma 71 della legge 191/2009 e l’art. 23, comma 2 del Dlgs 75/2017 devono essere non attenuate o derogate ma assolutamente abrogate e la Sanità pubblica deve spendere per i propri dipendenti molto, ma molto di più. Per adesso, ai sensi del comma 332 della legge di Bilancio 2023, si dovrebbe dedurre che per attrarre sanitari nei concorsi o non farli dimettere ci si deve contentare, per un infermiere, di un aumento di 30,20 euro mensili per 13 mensilità e, per un dirigente medico di 56,60 euro; naturalmente lordi. Tra l’altro, quando saranno effettivamente pagati questi emolumenti è, per ora, un mistero.