I tre giorni di permesso al mese che consentono di assentarsi dal lavoro per assistere familiari con gravi handicap devono essere riconosciuti anche al convivente more uxorio e non solo al coniuge e ai parenti e affini. Con la sentenza 213/2016, depositata ieri, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 che individua i fruitori dei permessi, in quanto non include i conviventi oltre ai familiari più stretti.
La questione affrontata dalla Consulta è stata sollevata dal tribunale di Livorno chiamato ad esprimersi sul caso di una lavoratrice dipendente che si è vista negare il permesso per assistere il convivente more uxorio affetto dal morbo di Parkinson. Questo perché la legge 104/1992 prevede quali fruitori dei permessi il coniuge o i parenti e affini entro il secondo grado (o entro il terzo grado se i genitori o il coniuge hanno almeno 65 anni, o siano deceduti o invalidi).
Punto centrale dell’argomentazione dei giudici costituzionali è che l’interesse primario della legge 104/1992, così come del congedo straordinario previsto dalla legge 151/2001, è «assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare».
Inoltre il diritto alla salute, tutelato dall’articolo 32 della Costituzione, rientra a sua volta tra i diritti inviolabili garantiti dall’articolo 2 della Carta costituzionale, sia in quanto il soggetto come singolo che nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Per quanto riguarda queste ultime, per formazione sociale si deve intendere ogni forma di comunità.
Di conseguenza, per la Consulta «è irragionevole che nell’elencazione dei soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito…non sia incluso il convivente della persona con handicap in situazione di gravità». L’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 risulta illegittimo rispetto all’articolo 3 della Carta costituzionale non tanto perché non equipara coniuge e convivente, che hanno una condizione comunque diversa, ma perché costituisce una contraddizione logica dato che la norma vuole tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile, finalità che in questo caso costituisce l’elemento che unifica la situazione di assistenza da parte del coniuge o del familiare di secondo grado e quella fornita dal convivente.
Escludere quest’ultimo dai beneficiari dei permessi comporta, secondo i giudici, un’irragionevole compressione del diritto, costituzionalmente presidiato, del disabile a ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita «non in ragione di una carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato normativo rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio».
L’articolo 33, così come oggi formulato, viola quindi l’articolo 3 della Costituzione per irragionevolezza e gli articoli 2 e 32 per il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave sia come singolo che nella società. La Corte costituzionale, nel riconoscere il ruolo del convivente lo equipara a quello della prima cerchia dei soggetti che, in via ordinaria, possono fruire dei permessi, cioè il coniuge, il parente o l’affine entro il secondo grado.
Matteo Prioschi – Il Sole 24 settembre 2016