Sempre più aggressiva, diffusa e con un potenziale di rischio per l’uomo in aumento. L’influenza aviaria potrebbe diventare la nuova epidemia da sconfiggere dopo il coronavirus. Diversi scienziati sostengono che i volatili stiano infettando più facilmente gli esseri umani e prevedono si stia avvicinando la temuta trasmissione tra persone. A quel punto non sarà più un problema solo per gli allevatori, costretti in questi anni ad abbattere oltre 300 milioni di polli, anatre ed oche, ma una questione di salute globale al pari del Covid.
Epidemia senza confini
Nell’ultimo anno l’Europa ha affrontato la più grave ed estesa epidemia di influenza aviaria, con ondate molteplici e senza neppure godere della “pausa estiva” che aveva caratterizzato in questi anni la comparsa della malattia solo nei mesi dell’autunno-inverno. I focolai si susseguono senza soluzioni di continuità, in allevamenti di pollame così come tra gli uccelli selvatici, i cui flussi migratori sono stati trasformati dai cambiamenti climatici. Una tale espansione lascia presagire che a breve le modifiche del virus consentiranno una trasmissione agli esseri umani semplificata rispetto ai rari casi riscontrati sinora. “Si teme che abbia un potenziale pandemico”, ha affermato Wendy Blay Puryear, virologa molecolare presso la Tufts University nel Massachusetts (Usa), sottolineando come la malattia dei volatili fosse in cima alla lista delle preoccupazioni degli scienziati fino a che il Covid non è entrato sulla scena pubblica, attirando su di sé tutte le attenzioni. La scienziata, intervistata dal quotidiano britannico Guardian, ha ribadito come al momento il virus sia considerato a basso rischio per l’uomo. Potendo però replicarsi ed evolversi rapidamente, non è da escludere che sarà presto in grado di infettare nuove specie, inclusa quella umana.
Evoluzione pericolosa
Le evidenze di questa evoluzione dell’H5N1 (la versione più diffusa dell’aviaria) esistono già. Dalla sua prima comparsa in Cina nel 1996, quando aveva infettato un allevamento di oche nel Guangdong, il virus è riuscito a manifestarsi in almeno 63 specie di uccelli selvatici, come pure nei mammiferi colpendo linci rosse, orsi e foche. Un “trasformista” in grado di cambiare pelle ed obiettivi col passare del tempo. Se finora scienziati e politici si erano aggrappati all’idea di poter controllare la malattia rinchiudendola nei confini dei pollai e tramite abbattimenti, questa illusione si sta sgretolando. “Stiamo affrontando una nuova era, perché se si è stabilito negli uccelli selvatici è una situazione molto più complessa quando si tratta di capire come controllarlo e di prevedere dove andrà dopo”, ha dichiarato Nichola Hill, professoressa di biologia all’Università del Massachusetts a Boston, che lo scorso giugno ha pubblicato uno studio sulla disseminazione del virus nel Nord-America. La diffusione è stata amplificata e facilitata proprio da questo andirivieni tra animali allevati e quelli selvatici, percorrendo grazie a quest’ultime distanze altrimenti inimmaginabili.
Allevamenti troppo grandi ed omogenei
L’altro fattore chiave risiede nel sistema alimentare, caratterizzato da allevamenti intensivi e dalla somiglianza genetica di gran parte degli animali. Pensiamo ad esempio al dominio dei polli Broiler, commercializzati in tutta l’area occidentale e forzati ad ingrassare rapidamente nelle parti più vendute come petto e cosce. Una tale densità ed omologazione, derivante da esigenze puramente economiche, è stata decisiva nell’ampliare rapidamente l’impatto dell’aviaria. Per ora l’unica risposta valutata dall’Unione europea, su spinta della Francia, è quella della vaccinazione dei volatili allevati. Un’ipotesi che ha generato finora dubbi e malcontento tra le aziende agricole di vari Paesi, ma che appare come la sola alternativa agli abbattimenti di massa.
Mortalità elevata
In questi anni l’infezione si è già manifestata negli uomini mietendo numerose vittime: tra il 2003 e l’ottobre 2022 sono state segnalate 865 persone infettate, distribuite in 21 Paesi. Tra queste i morti sono stati ben 456. Dalle cifre si comprende come il virus abbia un “alto tasso di mortalità nelle persone che vengono infettate”, ha confermato Kuiken. Nel frattempo si è presentato un nuovo ceppo, noto come H3N8, che nell’aprile del 2022 ha colpito per la prima volta un essere umano: un bambino di quattro anni la cui famiglia allevava polli in Cina. Gran parte dei casi di trasmissione, concentrati in Africa e in Asia, sono connessi alla manipolazione di pollame vivo infetto. Una volta infettata una persona, il virus tende però ad adattarsi e questo potrebbe consentire la trasmissione tra umani. “La possibilità che ciò accada è molto piccola, ma l’impatto, se dovesse accadere, è molto grande, perché significa che avremo una nuova pandemia influenzale”, ha spiegato Thijs Kuiken, professore di patologia comparata presso l’Erasmus University Medical Center di Rotterdam, che ha realizzato anche diversi studi sulla Covid-19. A titolo di esempio, il docente ha citato un’influenza esplosa nel 1918, originata dagli uccelli, che avrebbe ucciso all’epoca 50 milioni di persone
Secondo gli esperti per giungere alla trasmissione tra persone occorre che il virus affronti ancora diverse modifiche, ma il alto tasso di imprevedibilità è alto. “Non lo sappiamo mai veramente con questi virus…ma sono con noi da 18 anni in varie forme e non hanno ancora acquisito quella funzione di essere facilmente trasmissibili all’uomo”, ha affermato Ian Barr, vicedirettore del Centro di collaborazione per il riferimento e la ricerca sull’influenza dell’Organizzazione mondiale della salute a Melbourne. La speranza è che il virus continui a trovare difficoltoso questo passaggio, ma le informazioni al riguardo restano insufficienti. In un gioco di grandi numeri però, suggeriscono gli scienziati, la disseminazione del virus tra volatili comporta un numero maggiore di infezioni e quindi maggiori probabilità di mutazioni. Le conseguenze a quel punto potrebbero evolvere rapidamente e in maniera inaspettata.
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