Dietro ai numeri drammatici ci sono i ritardi nelle decisioni e il disastro della medicina di base (che viene da lontano). A ottobre a Londra le restrizioni sono scattate quando i defunti erano circa 120 ogni 24 ore. Noi abbiamo adottato il sistema a zone quando erano già 350. Le ragioni del ritardo sono politiche, il conflitto tra governo centrale e regioni, la scarsa propensione a intestarsi provvedimenti impopolari. «Muoiono soprattutto gli anziani» è la vulgata generale delle istituzioni. Ma non può essere l’unica risposta, meno che mai una giustificazione.
Marco Imarisio, Il Corriere della Sera. Alla fine, è sempre e solo una questione di tempo. Quando arriverà il momento di fare un bilancio, per quanto parziale, di questa seconda ondata, anche questa volta si conteranno le settimane di ritardo nel prendere decisioni. Nell’attesa, mancano pochi giorni al momento in cui l’Italia supererà il Regno Unito come numero assoluto di morti per Covid-19. E in quel momento, diventeremo i peggiori d’Europa. Siamo un Paese di vecchi, ma non siamo un Paese per vecchi. Abbiamo la seconda più alta età media del continente e nel marzo scorso scoprimmo di non sapere come proteggere la fascia più fragile della popolazione. Qualcosa è cambiato, non abbastanza.
Aggiornata al 9 dicembre, la classifica dei decessi attribuiti al Covid-19 dello European Centre for Disease Prevention and Control, vede il Regno Unito a quota 63.179, seguito da Italia (62.626), Francia (57.043), Spagna (47.334), Polonia (21.630) e Germania (20.737). Pura statistica, per quanto lugubre. Non fa testo dal punto di vista scientifico, perché dipende dalla popolazione di ciascun Paese. In ambito medico-epidemiologico viene più considerata la graduatoria che tiene conto del numero di morti calcolato per milione di abitanti. E qui le cose cambiano. Primo nel nostro continente viene il Belgio, con 1.516 vittime. Poi l’Italia, con 1.022. Terza la Spagna, con 1.005.
I Paesi a cui guardiamo più spesso in termini di confronto per via di una popolazione paragonabile alla nostra per numeri e anzianità, vengono ben dopo. Il Regno Unito, che fu la pecora nera del continente, ha 919 decessi ogni milione di persone. La Francia, 867. Molto più in fondo, per sua fortuna, la Germania (247), nonostante il recente grido di dolore di Angela Merkel, che trova inaccettabile il prezzo di 590 morti in una sola giornata, picco raggiunto lo scorso martedì. Anche l’indice mondiale di letalità plausibile stilato dall’Ispi in base alla demografia non depone a nostro favore. In testa c’è il Giappone, con 12,9 decessi attesi ogni mille contagi, seconda viene l’Italia (11,1), poi Grecia (10,8), Portogallo e Germania con 10,5. Spagna e Francia sono entrambe a 9,7.
Abbiamo capito da tempo che non andrà tutto bene, ma sta andando proprio male, a livello statistico e non solo. A marzo fu uno Tsunami, al quale reagimmo decretando per primi il lockdown totale. Questa è una lunga mareggiata, durante la quale non si è ripetuto il collasso del sistema sanitario. Un nuovo studio dell’Ispi stima che tra marzo e aprile siano state contagiate circa 2,5 milioni di persone, mentre a partire da ottobre abbiamo già superato i 3,5 milioni di postivi al coronavirus. Abbiamo protetto meglio i nostri anziani, come dimostra un indice di letalità più basso rispetto alla prima ondata. A marzo, ogni mille contagiati ne morivano 11,5. Oggi la stima è di 9/1.000. Eppure, il numero totale di decessi questa volta potrebbe superare quello della scorsa primavera. Siamo già a 26.000 vittime contro le precedenti 35.000. La proiezione finale dice che arriveremo a 40.000.
Non ne esiste una sola, e tutte si legano l’una all’altra, a cominciare dall’anzianità. Il disastro della medicina di base, con i pochi dottori rimasti mandati allo sbaraglio, è rimasto tale. Un disarmo che viene da lontano. Roberto Bernabei, tra i più importanti geriatri nostrani, ricorda che durante la canicola del 2003 ci fu una strage di anziani con le stesse patologie che vengono rese letali dal Covid-19. «Anche allora accadde una cosa tremenda: chi aveva una buona e continua assistenza domiciliare, ce la faceva. Chi non l’aveva, moriva. Se ne discusse molto, non cambiò nulla». In questo campo, le buone notizie hanno sempre un aspetto macabro. Tra marzo e maggio il 62% dei deceduti per Covid aveva una media di tre altre patologie, le cosiddette malattie di accompagnamento. Oggi siamo all’80%. «Se non a curare, abbiamo imparato a trattare e gestire meglio questa epidemia».
L’indicatore Siamo secondi dopo il Giappone nell’indice mondiale di letalità su base demografica
L’Italia lo aveva scoperto da sola, con la tragedia di Alzano lombardo, Nembro e dell’intera provincia di Bergamo, quando il rimpallo delle responsabilità tra governo e Regione Lombardia aveva spostato di almeno una settimana la creazione della zona rossa. Adesso c’è anche una ricerca della Columbia university: se durante la prima ondata gli Usa, e gli altri Paesi avessero agito una settimana prima di quanto hanno fatto, avrebbero ridotto i decessi di circa il 50%. Due settimane? Meno 85%. Anche oggi che i contagi si moltiplicano con un esponente più piccolo grazie a mascherine e distanziamento, la lezione avrebbe dovuto restare impressa. Non è stato così. A poco vale il mal comune mezza assoluzione fatto magari guardando chi ha ripetuto gli stessi errori.
L’Ispi suggerisce invece il paragone con chi aveva sbagliato proprio tutto e oggi se la cava meglio di noi. Il Regno Unito del fu negazionista Boris Johnson ha 68 milioni di abitanti, noi poco più di 60 milioni. Un Paese anziano: il 24% della popolazione ultrasessantenne contro il nostro 30%. A marzo, l’Italia ha inasprito le misure sei giorni prima del Regno Unito, che a parità di circolazione virale è arrivato ultimo. La media nazionale dei decessi al momento dei rispettivi lockdown è stata di 59 morti al giorno per noi, 140 per UK. Alla fine della prima ondata, noi abbiamo avuto un picco di 800 morti al giorno, loro di 920, una media durata più della nostra.
Invece a ottobre, per Londra e dintorni le nuove restrizioni sono scattate quando venivano registrati 120 morti ogni 24 ore. Dieci giorni prima dell’Italia, che ha adottato il sistema «a zone» quando ormai contavamo 350 decessi quotidiani. A parità di avanzata dell’infezione, oggi la curva britannica è più bassa della nostra, una media quotidiana di 460 persone scomparse contro le nostre 740. Carlo La Vecchia, docente di epidemiologia alla Statale di Milano calcola in venti giorni il tempo perduto. «Dal 10 al 30 ottobre ogni indice suggeriva di correre ai ripari, ma abbiamo dovuto attendere il Dpcm del 4 novembre. Ottobre è stato come febbraio durante la prima ondata. Gli stessi segnali. Allora non sapevamo, non avevamo capito. Questa volta sapevamo bene che agire subito era fondamentale».
Le ragioni del ritardo sono politiche, il conflitto tra governo centrale e regioni, la scarsa propensione a intestarsi provvedimenti impopolari. «Muoiono soprattutto gli anziani» è la vulgata generale delle istituzioni. Ma non può essere l’unica risposta, meno che mai una giustificazione.