Il Sole 24 Ore. Un’estensione della platea dei lavoratori impegnati in attività gravose e usuranti, magari accompagnato da un rafforzamento del meccanismo “agevolato” d’uscita con uno “sconto” di un anno ogni 10 anni lavorati o agendo sui coefficienti di trasformazione. Una proroga con possibile parziale riconfigurazione dell’Ape sociale. E un probabile prolungamento di Opzione donna: la possibilità di pensionamento anticipato, ma con l’assegno interamente “contributivo, per le lavoratrici in possesso di almeno 58 anni d’età (59 se “autonome”) e 35 di contribuzione.
Ma sul tavolo pensioni gravano molte incognite, e non solo legate alle eventuali forme di flessibilità in uscita da introdurre nel 2022. Con i sindacati e un’ampia fetta della maggioranza che spingono per mantenere l’asticella anagrafica delle uscite anticipate a 62-63 anni, anche se con un fisionomia diversa da Quota 100, o per aprire un canale che porti alla pensione al raggiungimento dei 41 anni di contribuzione a prescindere dell’età anagrafica (la cosiddetta Quota 41). Opzioni che non sembrano convincere troppo il ministero dell’Economia, che deve fare i conti con la vigilanza assidua della Commissione Ue sul capitolo previdenza, e con le esigue risorse da utilizzare per gestire il passaggio tra la fine del triennio sperimentale dei pensionamenti anticipati con almeno 62 anni d’età e 38 anni di contribuzione e il ritorno alla legge Fornero, e quindi con il nodo dei “costi”. Che rappresenta appunto la prima incognita destinata a condizionare il confronto. Anche per la sola proroga di Ape sociale in versione rafforzata, di Opzione donna e per l’allargamento del bacino delle categorie di lavori gravosi e usuranti da tutelare, servirebbe una dote superiore ai 500 milioni, che potrebbe anche avvicinarsi al miliardo a seconda della tipologia dell’intervento adottata. E nel caso del ricorso a una forma di flessibilità anche soft, come quella proposta dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, con la possibilità di anticipare a 63 anni (con almeno 20 anni di contribuzione) la solo quota “contributiva” dell’assegno (da associare a quella retributiva solo al sessantasettesimo anno d’età), servirebbero poco meno di 450 milioni il primo anno per poi arrivare a oltre 2 miliardi alla decima annualità.
Molto più pesante sarebbe l’impatto sui conti pubblici di Quota 41, che, secondo i calcoli dell’Inps, costerebbe oltre 4,3 miliardi già nel primo anno fino a superare i 9,2 miliardi nell’ultima annualità di un tratto di percorso decennale. Anche se, secondo la Cgil, la ricaduta sulla cassa di questa misura sarebbe molto più contenuta. Non trascurabili sarebbero anche le risorse necessarie per un’altra delle ipotesi in campo: la possibilità di uscita per tutti con 64 anni d’età e 36 di versamenti e un assegno interamente “contributivo” o, in alternativa, con 64 anni d’età, 20 di contribuzione e un importo minimo del trattamento di almeno 2,8 volte l’assegno sociale (sempre in configurazione contributiva). In questo caso nella fase d’avvio la spesa lieviterebbe di 1,2 miliardi, con un picco di 4,7 miliardi al sesto anno. Numeri che si inseguiranno sul tavolo fino a settembre quando le novità sulle pensioni dovranno trovare posto nella manovra. Che potrebbe anche prevedere misure per incentivare il ricorso alla previdenza complementare, anzitutto di natura fiscale. Ma i sindacati puntano pure su un nuovo silenzio-assenzo per l’uso del Tfr.