«Davanti a una tragedia con tanti morti dovremmo imparare a stare in silenzio, come ha fatto il presidente Mattarella alla camera ardente per le vittime del naufragi di Cutro, un gesto eloquente».
Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, è giusto ripercorrere la gestione Covid con un’inchiesta giudiziaria?
«Non entro nel merito delle notizie che emergono dall’indagine. A febbraio 2020 eravamo totalmente impreparati come Paese, ma chiediamoci perché. Più che addossare la responsabilità a questo o a quello nella gestione di momenti drammatici che chiunque avrebbe avuto problemi ad affrontare con lucidità, non dimentichiamo che negli ultimi trent’anni si è provato in tutti i modi a smantellare il Servizio sanitario nazionale. Il cosiddetto “modello lombardo” era basato sulla logica del mercato, libera scelta e competizione: tutto il contrario di quello che serve in sanità, dove il mercato proprio non funziona. Se ne sono accorti in Inghilterra (“il nostro sistema sanitario è malato ma si può ancora curare” scrive Lancet) e persino negli Stati Uniti. Quella logica ha contaminato anche gli ospedali pubblici: se paghi vieni assistito subito, sennò aspetti mesi o anche anni. Il Washington Post di ieri titolava così: la salute pubblica deve essere rimessa al centro dell’agenda politica».
«Ci siamo trovati con un virus contagiosissimo, pazienti che arrivavano in ospedale uno dopo l’altro, senza una medicina territoriale in condizioni di fare da filtro. All’inizio del 2020 molti esperti erano convinti che Covid non sarebbe giunto anche da noi. Le previsioni e i modelli matematici spesso falliscono di fronte a un virus che muta continuamente e alle moltissime variabili che concorrono alla sua diffusione».
Perché non è stato attuato il piano pandemico del 2006?
«Come ha spiegato Donato Greco al Corriere, era riferito all’influenza e non si applica a Covid. Non prevede per esempio il distanziamento, né l’istituzione di “zone rosse”. È necessario un nuovo piano pandemico, ma non basta scriverlo: servono formazione e conoscenze, cose che non si fanno da un giorno all’altro. Oggi l’Accademia dei Lincei ha pubblicato un documento intitolato “Preparedness to pandemics”, messo a punto da un gruppo di lavoro coordinato dall’epidemiologo Paolo Vineis. È un piano che richiede anni per essere attuato».
Cosa dovrebbero fare i politici?
«Ascoltare gli scienziati, è importantissimo, ma poi decidere tenendo conto di molti altri aspetti che non hanno necessariamente a che fare con la scienza. È stato fondamentale istituire un Comitato tecnico-scientifico composto da persone competenti, che dava di volta in volta le indicazioni più appropriate per il momento che si stava vivendo. Tradurle in interventi concreti è stato compito della politica».
Se dovesse arrivare una nuova pandemia, saremmo pronti a reagire?
«Non è detto, potremmo persino trovarci in una situazione peggiore. Abbiamo meno medici, meno infermieri, che sono sempre più stanchi e meno motivati. Anche se non dobbiamo dimenticare le cose meravigliose fatte negli ultimi tre anni, che andrebbero valorizzate: interi reparti convertiti in pochi giorni, personale formato per fornire assistenza respiratoria; che bello se nello sforzo di capire cosa è successo ci si occupasse anche di questi aspetti».
Che cosa serve adesso?
«Basterebbe implementare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che nella missione 6 dice per filo e per segno tutto quello che si dovrebbe fare: “reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale”, con Case della comunità in cui operano equipe multidisciplinari e assistenza domiciliare integrata (“casa come primo luogo di cura”). Ancora più importante è evitare che il dramma si ripeta: non possiamo permetterci altri morti dopo tutto quello che è successo. E allora bisogna mettere mano alla sanità pubblica: deve essere davvero per tutti, da Torino a Trapani, e funzionare. L’ha scritto persino il New England Journal of Medicine, “se non ora quando?”».