Che cosa nazionalizziamo questa settimana? Dall’irrompere del Covid19 nelle nostre vite, il dibattito di politica economica in Italia ha avuto al centro due questioni: come portare a casa più aiuti possibili dall’Unione europea, ma senza usare il Mes, e come spenderli per accrescere ancora l’impronta dello Stato nell’economia italiana.
di Alberto Mingardi, L’Economia. La pandemia viene spesso paragonata a una guerra. Dalle guerre, gli Stati tendono a uscire più grandi di quanto fossero prima. Da una parte gli Stati nazionalizzano intere filiere «essenziali» allo sforzo bellico, dall’altra regolamentano sempre più in dettaglio la produzione e anche i consumi. L’esperienza del «socialismo di guerra» è quella di una progressiva centralizzazione, nella quale all’iniziativa degli imprenditori si sostituisce la decisione di ministeri e «commissioni» che scelgono per tutti quali bisogni sociali debbono essere soddisfatti, come, e da chi. A guerra finita è difficile tornare indietro: privatizzare le imprese nazionalizzate implicherebbe con tutta probabilità uno sfoltimento dei loro organici, che si vuole evitare a tutti i costi; il passaggio dall’erogazione contingentata di beni e servizi di base al ritorno a condizioni di mercato è politicamente spinoso; una volta affidati poteri e responsabilità a un piccolo esercito di «controllori» è difficile sbarazzarsene. Anche per questo, dopo la Seconda Guerra Mondiale si ripresero prima e meglio gli sconfitti: perdere aiuta a fare pulizia nelle classi dirigenti e l’esiguità delle risorse a disposizione costringe a smantellare apparati costosi.
Una questione di obiettivi
In ogni caso, in guerra la subordinazione dell’economia privata allo Stato segue una direzione chiara. Il mercato è pluralista, consente alle domande più diverse di cercarsi un’offerta e viceversa. In guerra l’obiettivo che deve essere perseguito è uno soltanto, e per tutto il Paese: vincere.
Ci si aspetterebbe dunque che anche l’interventismo pandemico seguisse più o meno questo percorso. Che risorse ed energie venissero concentrate negli sforzi per fronteggiare e, se possibile, sconfiggere questo nemico invisibile: test e tracciamento, terapie, ospedali, strutture per l’isolamento dei contagiati, eccetera. Da noi le cose vanno diversamente. Al centro del dibattito, oggi, non ci sono le commesse con cui il commissario Domenico Arcuri ha avviato la produzione di mascherine «italiane» — e neppure la produzione di igienizzanti da parte dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. C’è invece un vasto catalogo di decisioni e interventi che non hanno una relazione immediata con la crisi pandemica.
Fuori dai cassetti
Solo nelle ultime settimane abbiamo appreso che il governo ha finanziato con uno stanziamento di tre miliardi la newco di Alitalia. La banca dello Stato, Cassa depositi e prestiti, è stata impegnata in una serie di operazioni ambiziose: ha partecipato a una cordata per l’acquisto di Borsa Italiana, è diventata il maggior azionista di un nuovo campione nazionale dei pagamenti elettronici, sta trattando per acquisire Autostrade per l’Italia.
Sappiamo anche per sommi capi il genere d’impiego che sarà fatto dei fondi Next Generation Eu: in cima alla lista c’è un ampio programma di investimenti infrastrutturali, a cominciare dalla linea ad alta velocità sulla dorsale adriatica. Sono iniziative magari assolutamente meritorie, ma che hanno poco a che vedere con lo specifico della pandemia. È come se in guerra lo Stato avesse aumentato il proprio raggio d’azione ma per fare burro, non cannoni.
L’impressione è che in parte ciò avvenga per ideologia, in parte per sciatteria. Per ideologia: alcuni intellettuali spronano i governi (non solo il nostro, che pure è particolarmente sensibile) a sfruttare le condizioni eccezionali determinatesi grazie al Coronavirus per forzare investimenti e risorse in una direzione «gradita». Per sciatteria: la politica si è convinta di dovere pompare denaro nell’economia e, per farlo, apre i cassetti dei ministeri. Progetti pensati (e abbandonati, magari con qualche ragione) in altri momenti storici vengono velocemente rispolverati, per dare l’impressione che «il governo c’è».
La pentola d’oro non c’è
Forse proprio da questo fatto vengono alcuni dei nostri problemi nella gestione del contagio. Il governo finora ha insistito a non usare il Mes perché indebitarci con il fondo Salvastati significa prestare il fianco ai sovranisti di destra, imbarazzando i loro ex compagni di coalizione del Movimento Cinque stelle. L’utilizzo del Mes a condizioni particolari e di grande favore, come quelle che ci sono state offerte, è vincolato all’emergenza sanitaria. Si tratta di un finanziamento del quale si può fare uso per ammodernare le strutture ospedaliere e, più in generale, per contrastare la pandemia. Ma i fondi europei sono diventati, nel dibattito pubblico, la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno cui attingere per rifare l’Italia di domani: proprio per questo, si è data l’impressione che in qualche modo fossimo pronti da soli a gestire l’oggi, che l’aumento delle terapie intensive deciso in primavera fosse condizione sufficiente per affrontare meglio la seconda ondata, che quanto fatto in termini di test e tamponi bastasse. Stiamo scoprendo che non è così.
Sono giusti e comprensibili gli appelli ad usare i fondi Mes per rafforzare il servizio sanitario nazionale, l’ultimo quello di Gianfelice Rocca sul Sole 24 Ore. Eppure, a questo punto, non è detto che possano fare la differenza.
Per come si è sviluppata la discussione, in Italia, salute ed economia appaiono esigenze inconciliabili. Da una parte gli appelli a bloccare il contagio «costi quel che costi» (se possibile, con soldi altrui), dall’altra il grido di dolore del mondo produttivo. In realtà anche la gestione della pandemia è una questione economica almeno tanto quanto sanitaria. Bisogna scegliere come impiegare risorse scarse: quali sono gli ospedali che devono essere rammodernati, quali attrezzature sono necessarie, dove vanno collocate le nuove terapie intensive. Ma dovremmo anche comprendere, ogni giorno di più, che la pandemia ha bisogno di una risposta sul territorio, tarata su esigenze che non sono le stesse in tutto il Paese e che cambiano continuamente. Dal momento che il servizio sanitario nazionale non riesce a gestire un sistema di test a tappeto, perché non ampliare il numero dei soggetti abilitati a somministrare i tamponi, includendo — oltre ai medici di famiglia — anche i farmacisti? Perché non consentire a aziende e università di testare periodicamente i loro dipendenti?
La sconfinata fiducia nello Stato presuppone una preferenza per le decisioni top down. Non è detto però che aiutino a combattere il virus meglio dei processi bottom up.