I tempi in cui Matteo Salvini sfoggiava con orgoglio il cartello «quota cento» sono lontani anni luce. Correva l’inverno del 2019, e il governo gialloverde decideva di allentare l’odiatissima riforma Fornero. Il denaro a costo zero e la pandemia resero possibile ciò che oggi sarebbe impensabile: trenta miliardi di spesa aggiuntiva in un decennio. Da allora si è fatta lentamente marcia indietro. Ha iniziato a ritoccare i requisiti lo stesso Giuseppe Conte a un anno di distanza, ha continuato Mario Draghi: quota 101, 102, infine 103 come somma fra età anagrafica e contributiva. «Non c’è nessuna riforma previdenziale che tiene nel lungo periodo con i tassi di natalità attuali», dice Giancarlo Giorgetti. Il ministro leghista deve smussare gli angoli, perché far digerire il boccone al segretario non è facile, soprattutto in un anno elettorale. La collega Marina Calderone – anche lei ospite al Meeting di Cl – è più esplicita: «Non faremo marcia indietro sugli anticipi pensionistici».
La battuta dice tutto quel che c’è da sapere su quel che accadrà in autunno. Il governo si limiterà a confermare le attuali regole per l’uscita anticipata: non meno di 62 anni e 31 di contributi regolarmente pagati. «Dovremo lavorare per comprendere come inserire altri strumenti e rivederne alcuni, come l’anticipo sociale, che vedo più ampio, e per le donne», aggiunge generica Calderone. Fin qui, per alcune categorie di lavori gravosi è stato possibile chiedere la pensione con trent’anni di contributi.
C’è chi nel governo vorrebbe allargare le maglie, introducendo più flessibilità, ma conti alla mano significherebbe proporre pensioni anticipate con assegni inferiori di almeno un quarto. «Dovremo approfondire l’ipotesi di anticipare il pensionamento in cambio del calcolo contributivo di tutto l’assegno», spiegava due giorni fa il sottosegretario leghista Claudio Durigon. «Ipotesi politicamente pericolosa», dice un ministro sotto la garanzia dell’anonimato. Il ragionamento che circola nella maggioranza lo si può riassumere così: proporre pensioni anticipate ma alleggerite aprirebbe contemporaneamente due fronti. In primis con la Commissione europea, che ha sempre raccomandato all’Italia prudenza sui conti previdenziali. L’Italia, con la Grecia, resta il Paese con la più alta incidenza di spesa in proporzione alla ricchezza prodotta. E si aprirebbe un fronte con gli italiani alle prese con l’inflazione più alta da trent’anni. La sindrome Macron è dietro l’angolo. La richiesta ai francesi di raggiungere la stessa età minima imposta agli italiani è costata settimane di scontri di piazza. Quieta non movere, diceva un motto latino.
La sola conferma dell’attuale assetto costerà al governo Meloni un paio di miliardi di euro, tenuto conto dell’inevitabile conferma dell’aumento delle pensioni minime a 600 euro, introdotto una tantum l’anno scorso.
Per cambiare il corso della spesa previdenziale occorrono anni e la visione lunga. Uno studio di Eurostat dello scorso marzo dice che il tasso di natalità in Italia – 1,25 per donna – resta fra i più bassi dell’Unione, bel al di sotto della media dei Ventisette (1,53). Fanno peggio di noi solo la Spagna (1,19) e Malta (1,13). In cima alla graduatoria ci sono invece la Francia, con 1,84 bambini nati per mamma, seguita da Repubblica Ceca (1,83), Romania (1,81) e Irlanda (1,78). Una delle soluzioni è aumentare l’ingresso di immigrati extracomunitari. Su questo il governo Meloni ha fatto meglio di altri: l’ultimo decreto flussi di luglio permette in un triennio l’ingresso di 500mila lavoratori regolari. Numeri cosi non se ne vedevano da più di dieci anni.
La Stampa