Marco Rogari, Il Sole 24 Ore. La manovra 2016 è un cantiere aperto. Anche perché al varo mancano ancora quasi due mesi. Diversi sono i nodi da sciogliere. A cominciare dall’entità della manovra stessa, dall’individuazione delle risorse per la proroga della decontribuzioni sui nuovi assunti e per la cancellazione della Tasi sulla prima casa annunciata dal premier insieme allo stop all’Imu agricola e a alla “tassa” sugli imbullonati. Non ultimo è quello delle pensioni con le correzioni della legge Fornero. Come è noto l’obiettivo di Palazzo Chigi è di introdurre con la legge di stabilità maggiore flessibilità in uscita ma con un’operazione che non impatti troppo sui conti pubblici anche per evitare tensioni con la Ue per la quale i risparmi della Fornero sono un punto fermo nel programma di sostenibilità dei conti italiani.
Di qui l’esigenza di un intervento che nel breve periodo non si allontani dal miliardo di maggior spesa previdenziale da recuperare poi automaticamente negli anni successivi. E tra le varie ipotesi sul tappeto ce n’è una, valutata con attenzione, che prevede un mix tra assegno ridotto e prestito pensionistico per consentire il pensionamento a partire dal sessantaduesimo anno di età anagrafica. Anche se la soglia di accesso ai pensionamenti ridotti alla fine potrebbe essere collocata a quota 63 anni di età.
La riduzione del trattamento sarebbe sempre più alta per ogni anno di anticipo in più partendo da un “taglio” del 3% ma il lavoratore avrebbe la possibilità di integrare il trattamento utilizzando il “prestito” in una versione leggermente corretta rispetto a quella studiata a suo tempo dal ex ministro Enrico Giovannini.
Per calibrare la riduzione dell’assegno resta sul tavolo l’opzione inserita nella proposta consegnata a Palazzo Chigi dal presidente dell’Inps, Tito Boeri: spalmare il montante contributivo accumulato nel corso di tutta la vita lavorativa in relazione all’età di uscita e alla speranza di vita residua. Con il risultato di ridurre l’assegno per chi lo incassa prima con un taglio di circa il 3% per ogni anno di mancata contribuzione.
In altre parole a parità di montante ogni anno di lavoro in meno farebbe scattare una sempre maggiore riduzione del trattamento. Secondo alcuni tecnici questo intervento secco penalizzerebbe troppo i pensionati con trattamenti di importo limitato. Ma Palazzo Chigi sembra apprezzare il grado di sostenibilità, anche in termini di impatto contabile, di questa proposta. Che potrebbe essere raccordata a quella del prestito previdenziale (magari in versioni parziale), anch’essa con un impatto molto contenuto su conti (meno di 800 milioni con un assegni temporaneo di quasi 700 euro mensili, che si ridurrebbero con un “prestito” di dimensioni più contenute).
Il mix assegno ridotto-prestito non escluderebbe a priori l’adozione anche del reddito minimo garantito tarato sugli over 55 con un ammortizzatore in scadenza, previsto sempre dal pacchetto Boeri. Molto dipenderà dalle risorse disponibili. Il lavoro sulle compatibilità finanziarie delle varie misure e sull’esatta quantificazione dei flussi di pensionati potenzialmente interessati dalle uscite anticipate non è stato ancora completato. Il quadro sarà definitivo a settembre. E a quel punto Matteo Renzi prenderà una decisione definitiva. Anche se con il trascorrere delle settimane è diventato quasi certo l’inserimento nella manovra di misure per rendere più flessibili le uscite pensionistiche. Il piano dovrebbe scaturire da una precisa proposta del Governo che comunque terrà conto dei progetti già presentati (anche di natura parlamentare), a partire da quello del presidente dell’Inps. E che potrebbe anche prevedere un contributo di solidarietà sulle pensioni più elevate, magari sopra i 3mila-3.500 euro netti al mese. Anche se su questo punto non c’è uniformità di vedute tra i tecnici così come all’interno della maggioranza.
Il capitolo previdenza della prossima “stabilità” conterrà sicuramente anche la dote per coprire nell 2016 e negli anni successivi la perequazione delle pensioni legata al bonus Poletti in pagamento dall’inizio del mese per effetto della pronuncia della Consulta. Il costo dell’intervento è di circa 400-500 milioni l’anno. Considerando anche il finanziamento della cassa che si determinerà sulla maggiore spesa (ma solo nel breve periodo) collegata alla flessibilità in uscita delle pensioni, le risorse che potrebbe utilizzare complessivamente il Governo per gli interventi di tipo previdenziale potrebbero aggirarsi tra gli 1,3 e gli 1,7 miliardi a seconda delle opzioni scelte.
Altre risorse (1-1,5 miliardi) saranno stanziate per le misure di contrasto alla povertà. La caccia alle risorse è il refrain della prossima manovra che ormai tende verso i 30 miliardi. Anche perché l’impegno del premier di eliminare la Tasi sulla prima casa, Imu agricola e tassa sugli “imbullonati” dovrà essere mantenuto. Il Governo è al lavoro anche sul taglio dei contributi per facilitare le assunzioni a tempo indeterminato.
BARETTA: CON LA FLESSIBILITÀ VANTAGGI PER LAVORATORI E IMPRESE
Il colloquio. «La legge Fornero non va cambiata, ma va superata la sua rigidità. Le priorità della manovra restano lo stop alle clausole, il taglio delle tasse e la decontribuzione»
«La flessibilità in uscita per le pensioni produce indubbiamente vantaggi sociali ma anche vantaggi economici». Non ha dubbi Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia e firmatario insieme a Cesare Damiano di una proposta di legge che consente il ritiro a partire da 62 anni di età a almeno 35 anni di contributi con una penalizzazione del 2% per ogni anno di anticipo fino a un massimo dell’8 per cento.
Dare la possibilità ai lavoratori di uscire anticipatamente anche se con un assegno penalizzato consentirebbe di alimentare «un mix generazionale favorendo l’accesso al lavoro di giovani e questo non può che essere accolto con favore dall’intera industria», dice Baretta. Che sottolinea: «Non si tratta di cambiare la regola della legge Fornero, ma lo spostamento dalla sera alla mattina dell’asticella da 60 a 66 anni ha creato una rigidità che va superata». E, aggiunge il sottosegretario, «visto che chi vuole restare al lavoro fino a 70 anni ha diritto a una rivalutazione del trattamento, perché non consentire a chi vuole uscire prima, anche per motivi familiari o personali, di poterlo fare ovviamente accettando una riduzione dell’assegno. Naturalmente si tratta di calcolare la penalizzazione in modo equilibrato».
La strada che intende imboccare il Governo sembra quella di un “taglio” dell’assegno più consistente del 2% annuo. «È in atto una discussione e si prenderà una corretta decisione tenendo conto anche dei costi che ci sono comunque solo nel breve periodo visto che nel medio periodo la flessibilità produce maggiore risparmi», afferma Baretta. Che è convinto che quello dei costi nell’immediato sia tutt’altro che un ostacolo insormontabile. «Anzitutto i calcoli finora fatti sulla base delle diverse proposte, ultimo della serie quello collegato alla proposta del presidente dell’Inps, Tito Boeri, scontano un’uscita contemporanea nel primo anno di tutti i soggetti potenzialmente interessati. Ma questo è praticamente impossibile», sostiene il sottosegretario. Che poi fa notare che andrebbero calcolati i risparmi indotti come quello riconducibile agli esodati: «Questo problema è esploso nel giro di due anni e mezzo e per affrontarlo sono state utilizzate risorse per oltre 11 miliardi. Con la flessibilità il problema sarebbe stato di dimensioni molto più contenute. Per non parlare del ricorso alla Cig. Con il ricorso all’uscita anticipata seppure con assegni ridotti l’uso di questo strumento si ridurrebbe automaticamente». Resta il problema di assegni che potrebbero rivelarsi troppo contenuti.
«Questo sistema può essere accompagnato dal principio del prestito pensionistico al quale ha fatto riferimento più volte il ministro Giuliano Poletti, che può essere anche alternativo alla penalizzazione», afferma Baretta.
Sulla composizione della manovra il sottosegretario ribadisce che «le priorità» restano «la completa sterilizzazione delle clausole di salvaguardia e la cancellazione della Tasi sulla prima casa insieme all’Imu agricola e alla tassa sugli “imbullonati”, che sono state annunciate dal premier». Baretta afferma che le misure sulla pensioni e sugli imbullonati sono di fatto «un incentivo per le imprese così come la decontribuzione. Tutti interventi strategici su cui, sulla base delle risorse disponibili, alla fine bisognerà decidere».
MINI-RIFORMA POSSIBILE, MA LA VERA PARTITA È CON BRUXELLES
Dino Pesole. Visto da Bruxelles, un nuovo intervento sul fronte della previdenza all’insegna della flessibilità in uscita è possibile, ma con diversi caveat. Poiché le riforme messe in campo finora puntano a stabilizzare a regime una spesa che assorbe il 15% del Pil, ogni nuova misura dovrà essere pienamente compensata, con effetti sostanzialmente neutri per i conti pubblici. Va in sostanza garantito integralmente il piano di risparmi a regime previsto dalla legge Monti-Fornero del dicembre 2011: circa 80 miliardi entro il 2020, somma cui vanno sottratti i 12 miliardi impegnati per salvaguardare 170mila esodati, e che comprende anche i 18 miliardi a regime che derivano dal blocco biennale delle indicizzazioni 2012-2013 per le pensioni superiori a tre volte il minimo Inps. Cifra aggiornata in base alla spesa impegnata dal governo (2,1 miliardi nel 2015) per la restituzione una tantum di parte del mancato adeguamento a 3,7 milioni di pensionati, che passerà a 500 milioni l’anno dal 2016.
Il nuovo, se pur contenuto, intervento allo studio del governo per la prossima legge di stabilità in tema di pensioni andrà dunque inserito nel pacchetto di richieste da prospettare in settembre a Bruxelles. Il via libera preventivo è condizione essenziale, poiché la tenuta dei conti previdenziali è uno dei principali “fattori rilevanti” sui quali il monitoraggio da parte della Commissione Ue è costante, tanto da essere inserito in gran parte dei documenti ufficiali indirizzati al nostro paese con specifico riferimento alla sostenibilità nel medio periodo del debito pubblico. Stando alle più recenti stime, pur con gli interventi previsti dalla legge Fornero, la spesa previdenziale è prevista in crescita del 2,7% nel 2019, contro l’incremento decisamente più contenuto (1,2%) del resto della spesa corrente.
Materia da maneggiare con molta attenzione, dunque. La stessa decisione assunta dal Governo per far fronte agli effetti della sentenza della Consulta (oltre 18 miliardi qualora la si fosse applicata integralmente) è maturata dopo una preventiva consultazione con Bruxelles. Il disco verde annunciato il 20 maggio è stato motivato dalla constatazione che il dispositivo del relativo decreto non comportava alcuna modifica del deficit per l’anno in corso. Nessuna obiezione alla copertura, garantita in gran parte dall’ex “tesoretto” di 1,6 miliardi ritagliato nelle pieghe dei conti con il Documento di economia e finanza di aprile. Ora si replica, e spetterà in primis al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan convincere l’esecutivo comunitario che i primi passi in direzione della nuova flessibilità in uscita non impatteranno sui conti pubblici. Partita che si intreccia con i margini ulteriori di flessibilità che il Governo si accinge a prospettare a Bruxelles, in particolare per quel che riguarda la clausola sugli investimenti. Stando al quadro tendenziale, il deficit del 2016 si sarebbe attestato all’1,4% del Pil. A maggio la Commissione europea ha autorizzato l’applicazione della clausola di flessibilità sulle riforme, consentendo in tal modo al Governo di riformulare il target programmatico del deficit elevando l’asticella all’1,8 per cento. Di conseguenza nel prossimo anno la riduzione del deficit strutturale (calcolato al netto delle variazioni del ciclo economico e della una tantum) potrà limitarsi allo 0,1% del Pil. Ma soprattutto (e qui entra direttamente in gioco la variabile decisiva della spesa previdenziale) va rispettata la “regola del debito”. In caso contrario, si creerebbero le premesse per l’apertura di una procedura di infrazione, che farebbe venir meno tutte le clausole di flessibilità (già accordate o in itinere)e ogni ulteriore margine di azione previsto dal cosiddetto braccio preventivo del Patto di stabilità.
Il Sole 24 Ore – 23 agosto 2015