Il dopo Quota 102. La mina conti e le altre opzioni: uscite a 62 anni e 35 di contributi con decalage Opzione donna anche per gli uomini ma a 61-62 anni e flessibilità in uscita solo da aprile o luglio
Si parte da Quota 41, cavallo di battaglia della Lega e gradita ai sindacati, che però, stando alle ultime indiscrezioni, potrebbe essere ancorata a una soglia anagrafica per ridurne i costi, stimati nella versione senza vincoli d’età in almeno 4 miliardi già il primo anno. Ma questa “variante” non convince affatto il Carroccio, con il responsabile lavoro Claudio Durigon che fa capire come per la Lega la priorità rimanga il pensionamento con 41 anni di versamenti a prescindere dal requisito anagrafico. C’è poi l’ipotesi di uscite con 62 anni e 35 anni di contributi e penalizzazioni della quota retributiva (fino a un massimo dell’8%) sotto il limite dei 66 anni (sopra scatterebbero dei “premi”), prevista da una proposta formulata la scorsa legislatura da Fdi. A elaborarla per Fratelli d’Italia era stato in Commissione Lavoro alla Camera Walter Rizzetto. Che afferma: «Questa e altre proposte di flessibilità in uscita sono assolutamente in campo ma bisogna prima valutare il loro impatto sui conti pubblici».
La terza misura possibile è una configurazione in forma permanente di Opzione donna, ovvero del pensionamento a 58 anni d’età (59 per le lavoratrici autonome) e 35 di contribuzione vincolato però al ricalcolo contributivo dell’assegno (e conseguente riduzione media dell’importo del 20-25%), con la sua estensione anche ai lavoratori (la cosiddetta “Opzione uomo”) ma partendo da una soglia anagrafica più alta (60 o, più probabilmente, 61 o 62 anni). A fare riferimento alla possibilità di studiare un intervento di questo tipo è stata la stessa Meloni nelle scorse settimane. Ma dalla Cgil arriva subito un secco no: «Mandare in pensione le persone riducendogli l’assegno non mi pare sia una grande strada percorribile», ha detto ieri segretario generale, Maurizio Landini. Sul tema è intervenuto anche il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ricordando che Opzione donna ha avuto un tiraggio rispetto alla platea del 25%. «Dato basso? È una scelta», ha detto Tridico aggiungendo: «Tutti sanno che col modello contributivo se si va in pensione prima si va con un minore assegno pensionistico». Secondo il presidente dell’Inps, che ha ricordato come nel 2021 l’Istituto abbia speso 365 miliardi per pensioni e assistenza, la via da seguire è quella di «garantire una certa flessibilità in uscita rimanendo ancorati al modello contributivo».
L’ultima e, per ora, meno gettonata opzione sul tavolo del centrodestra è la proroga immediata di Opzione donna e Ape sociale ricorrendo, dopo un confronto con i sindacati, a un decreto ad hoc per riformare le pensioni. Un provvedimento da varare nei primi mesi del 2023 con l’obiettivo di far scattare le nuove misure ad aprile o a luglio per renderle più facilmente compatibili con il sofferente quadro dei conti pubblici del prossimo anno.
Ma in ogni caso qualsiasi scelta dovrà rispettare un preciso paletto: la compatibilità dei costi con lo stato di salute del bilancio pubblico. Che però, come è emerso dalla Nadef ”light” targata Draghi-Franco, si presenta in netto peggioramento e con una crescita boom della spesa previdenziale, stimata in circa 23,5 miliardi, in gran parte dovuta alla necessità di far fronte a gennaio a costose indicizzazioni degli assegni pensionistici all’inflazione. Una mina sui conti che rischia di condizionare le decisioni sul versante previdenziale. Anche per questo motivo è spuntata l’ipotesi di agganciare Quota 41 a un requisito anagrafico e Meloni guarda al metodo di calcolo contributivo (inglobato in Opzione donna), così come, per altro, aveva fatto Mario Draghi nei suoi scambi di vedute con i sindacati.