Il maggiore dei sindacati dei medici ospedalieri, l’Anaao-Assomed, e il sindacato Cimo-Fesmed chiedono però risposte immediate con il ritiro della misura perché la definiscono un «inaccettabile attacco ai diritti acquisiti: si riducono le aliquote di rendimento dei contributi versati prima del 1996 colpendo quasi il 50% del personale attualmente in servizio con una perdita stimabile tra il 5% e il 25% dell’assegno pensionistico annuale, da moltiplicare per l’aspettativa di vita media». Il sindacato degli anestesisti, Aaroi-Emac, fa poi sapere che si stima per il sistema ospedaliero pubblico una «perdita istantanea di oltre un migliaio di anestesisti rianimatori e di medici di pronto soccorso assunti con contratto nazionale di lavoro (circa il 7% complessivo dei professionisti di questi due settori che oggi lavorano come pubblici dipendenti), e la perdita successiva di un altro 2% all’anno da qui a venire per altri 15 anni (quelli che più o meno restano all’esaurimento dei medici pensionandi con il “sistema misto”)». All’attacco anche Cgil e Uil. La stessa Cgil è critica sul capitolo previdenza della manovra.
Ma, a meno di un restyling in extremis, il testo della legge di bilancio che sarà esaminata dal Senato dovrebbe confermare questo giro di vite per poi magari lasciare aperto lo spazio a correzioni in corsa.
A essere sicuramente confermate sono le altre misure già annunciate: da Quota 103, con il ricalcolo contributivo e il tetto all’importo del trattamento, all’innalzamento dei requisiti anagrafici per Ape sociale (a 63,5 mesi) e Opzione donna (a 61 anni, con sconti alle lavoratrici madri di 12 mesi in presenza di un figlio e di 24 mesi con più figli) e al riscatto fino a un massimo di cinque anni dei cosiddetti lavoratori interamente “contributivi”.
Le modifiche apportate negli ultimi giorni all’impostazione originaria della manovra, soprattutto per effetto del pressing della Lega, non intaccano la strategia decisa dal governo per rendere più arduo l’accesso a tutti i canali di uscita anticipata. A cominciare dal post-Quota 103. Che, se nel 2024 non vedrà materializzarsi Quota 104 come era stato ipotizzato al momento del varo della manovra da parte del Consiglio die ministri, sarà comunque caratterizzato da forti penalizzazioni all’attuale via d’uscita con 62 anni d’età e 41 di contribuzione. Oltre al ricalcolo contributivo dell’assegno (il sistema non sarà più”misto”) viene fissato un tetto all’importo dell’assegno fino al raggiungimento del requisito di vecchiaia dei 67 anni: il limite d’importo massimo sarà di quattro volte il minimo e, quindi, nel 2024 di circa 2.272 euro. È poi prevista un’estensione delle cosiddette finestre mobili, ovvero del periodo di attesa per l’erogazione del primo rateo pensionistico una volta maturati i requisiti, che si allungano a sette mesi per il lavoratori privati e a nove mesi per quelli pubblici.
Per i lavoratori interamente contributivi, quelli che al 31 dicembre 1995 risultano privi di anzianità “assicurativa”, cambia anche il”tetto” collegato all’utilizzo della via di pensionamento anticipato con 64 anni d’età e 20 di versamenti. La soglia dal 2024 salirà a tre volte l’assegno sociale (e quindi a circa 1,521 euro lordi al mese, al netto della rivalutazione prevista per il prossimo anno), ma non per le lavoratrici con prole. Che vedranno scendere il ”tetto” a 2,8 volte la pensione sociale con un figlio e 2,6 volte in presenza di più figli (circa 1.318 euro lordi mensili). L’assegno non potrà comunque superare le cinque volte il minimo Inps fino al raggiungimento del requisito di”vecchiaia” dei 67 anni.
Per questo “canale” la legge di bilancio introduce anche una finestra di tre mesi dalla maturazione dei requisiti oltre all’adeguamento del requisito contributivo (20 anni) alla speranza di vita. Sempre i “contributivi” puri vedranno però facilitato l’accesso al pensionamento di vecchiaia con 67 anni di età e almeno 20 anni di contribuzione: dal prossimo si potrà andare in pensione se il trattamento maturato sarà pari alla pensione sociale e non più superiore di almeno 1,5 volte. Nulla cambia per il pensionamento di vecchiaia dei lavoratori interamente contributivi con 71 anni d’età e almeno cinque anni di versamenti a prescindere dell’importo del trattamento.
La manovra prevede anche il ripristino dal 2025 dell’adeguamento automatico per le uscite anticipate con 42 anni di età a 10 mesi (41 anni e 10 mesi per le lavoratrici), a prescindere dall’età anagrafica.
Aumentano i paletti per limitare gli anticipi
Restano invariate le regole riguardanti le due tipologie di pensione:
quella di vecchiaia, per chi ha almeno un contributo accreditato prima del 1996, continuerà a essere accessibile con almeno 67 anni di età e 20 di contributi (requisiti da adeguare alla speranza di vita dal 2027, al pari di tutti gli altri soggetti a questo meccanismo);
quella anticipata, sempre per chi ha contributi ante 1996, che richiede almeno 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne) a prescindere dall’età.
Saranno ancora sufficienti 41 anni di contributi per i lavoratori precoci (24mila uscite nel 2022) e le quote a partire da 61 anni e 7 mesi di età per gli “usurati” (1.600 uscite nel 2022), nonché vecchiaia e anticipata in totalizzazione.
Quota 103 resta in vita, ma viene introdotto il calcolo dell’assegno con il sistema contributivo invece che con quello misto. Per raggiungere 41 anni di contributi nel 2024 occorre aver iniziato a versare nel 1983 e quindi si rientrerebbe nel metodo di calcolo misto, che comporta l’applicazione del metodo retributivo fino al 1995. Quindi i futuri “quotisti” perderanno 12 anni di calcolo retributivo.
Si riducono ulteriormente le chance di utilizzo di opzione donna, perché matureranno i 61 anni di età entro quest’anno le stesse lavoratrici che hanno compiuto i 60 nel 2022. E quindi non si aprono le porte della pensione a nuove leve anagrafiche, ma solo a chi ha bisogno di un anno in più per raggiungere il co-requisito di 35 anni di contributi.
La manovra, inoltre, interviene sulle pensioni contributive, quelle destinate, in via generale, a chi ha contributi accreditati solo dal 1996 in poi. Restano invariati i requisiti anagrafici, cambiano soprattutto quelli correlati all’importo. La pensione di vecchiaia si continuerà a raggiungere a 67 anni e almeno 20 di contributi ma solo se il valore sarà pari almeno a quello dell’assegno sociale (attualmente 503,27 euro mensili lordi). Oggi è richiesto un valore pari almeno a 1,5 volte. Quindi si dà il via libera a pensioni povere.
Tuttavia, a 64 anni di età e 20 anni di contributi si potrà accedere all’anticipata contributiva con un valore, in via generale, di almeno tre volte l’assegno sociale (oggi 2,8 volte). Ma se l’importo sarà superiore a cinque volte il trattamento minimo, verrà tagliato fino al raggiungimento degli attuali 67 anni. Insomma, non si dovrà avere una pensione da fame, ma se “troppo” agiati si verrà puniti.
Alla luce della legge di Bilancio il passaggio al contributivo, deciso nel 1995 e non ancora completamente realizzatosi, come disegnato finora sembra non essere più sufficiente per l’equilibrio dei conti. E andare in pensione inizia a richiedere abilità particolari, al fine di riuscire a evitare tutti i paletti all’accesso.