Il documento è chiuso da tempo in un cassetto dell’Inps. Una nota lasciata dall’ex coordinatore generale del servizio statistico attuariale dell’Istituto di previdenza sociale, Antonietta Mundo, colei che fino a poco tempo fa (è appena andata in pensione) sovrintendeva a tutte le stime sul futuro pensionistico degli italiani.
Tra le pagine del dossier c’è un passaggio che suona come un campanello d’allarme. «Se le stime del Mef (ministero dell’economia e delle finanze, ndr) fossero verificate», si legge nel testo che Il Messaggero ha potuto visionare, «sarebbe la prima volta che i contributi versati, anziché rivalutarsi, subiscono un decremento». Per capire di cosa parla Antonietta Mundo e perché il documento, ha creato qualche apprensione già al governo precedente, bisogna fare un passo indietro.
Con il nuovo sistema previdenziale, la pensione è frutto dei contributi che ogni lavoratore accumula. Il datore di lavoro preleva il 33 per cento dello stipendio e lo versa all’Inps. Ogni anno l’Inps rivaluta questi contributi. Un po’ come quando si portano i soldi in banca e la banca paga un interesse. Il tasso di interesse pagato dall’Inps è pari alla crescita media del Pil nominale nei cinque anni precedenti. Il Pil nominale è, grossolanamente, la somma tra il Pil reale e l’inflazione. Insomma, se l’azienda Italia marcia e c’è anche un po’ di inflazione, le pensioni pubbliche saranno soddisfacenti.
Ma se accade, come sta accadendo, il contrario? Se il Pil non cresce e l’inflazione arretra e diventa deflazione, i contributi versati all’Inps invece di aumentare diminuiscono. È come se si portassero 1.000 euro in banca e l’anno dopo se ne trovassero sul conto 990. Per capire quanto sia serio il problema basta prendere l’esempio riportato nel documento. Nel 1997 il tasso di rivalutazione dei contributi è stato del 5,5871 per cento. Nel 2012 si è scesi all’1,1344 per cento. Nel 2014, spiega il dossier, «si avrà un tasso di capitalizzazione di segno negativo stimato pari a -0,024 per cento». Per la prima volta, insomma, 1.000 euro messi da parte all’Inps per la pensione varranno 999,9 euro. E sarà, come detto, la prima volta in assoluto da quando esiste il sistema contributivo.
LE SIMULAZIONI
Cosa succederà alle future pensioni, a quelle di chi lascerà il lavoro tra cinque, dieci o anche trent’anni? Un solo anno ovviamente significa poco, ma se la crisi dovesse essere lunga e la crescita una chimera, allora sarebbero guai seri. Una simulazione (si veda grafico in pagina) è stata elaborata da Progetica, una delle principali società indipendenti di consulenza italiane sui temi previdenziali. In assenza di crescita la futura pensione, per esempio, di un trentenne di oggi potrebbe essere più leggera del 22 per cento. Se il Pil aumentasse in media del 2 per cento l’anno, il trentenne lavoratore dipendente quando a circa 67 anni lascerà il lavoro, incasserebbe una pensione pubblica pari al 71 per cento della sua ultima retribuzione. Ma se la crescita del Pil fosse «zero», quella stessa pensione non supererebbe il 49 per cento dell’ultimo stipendio. Lo stesso, anche se in misura minore, sarebbe valido anche per un attuale cinquantenne che con una crescita zero si vedrebbe l’assegno ridotto dell’11 per cento rispetto ad una situazione in cui il Pil marciasse al ritmo del 2 per cento l’anno. Se non si ricomincia a crescere e se non arriva almeno un po’ di inflazione insomma, i futuri pensionati rischiano di essere poveri.
Il Messaggero – 16 agosto 2014